MALGRADO I PROCLAMI, SONO SEMPRE GLI STESSI

La vicenda Alitalia è emblematica del modo d’essere dei cosiddetti ex o post comunisti. E ciò indipendentemente se a rappresentarli c’è un signore che si chiama Veltroni, o se invece ci fosse un tale chiamato D’Alema o anche un certo Pincopallino. Cambia tutt’al più il tono della voce che può essere suadente, sprezzante o semplicemente incolore, ma il percorso sarà sempre lo stesso. Si spara a zero, si creano mille problemi, si cerca di non farsi scavalcare a sinistra neanche da Di Pietro, ma quando ci si accorge che le cose, malgrado loro e le loro strategie, vanno avanti positivamente e l’opinione pubblica ne è contenta, scatta il famoso arboriano.. indietro tutta.

Alitalia atto primo. Il governo Prodi (specialista in materia) tenta la carta della svendita della compagnia di bandiera all’Air France, ma l’operazione non va in porto per l’opposizione dei Sindacati che, in assenza della tenacia di un Gianni Letta, hanno partita vinta. L’Air France si tira indietro pensando che avrebbe potuto avere maggiori chances dopo le elezioni. Chiunque avesse vinto, infatti, essendo con l’acqua alla gola, doveva presentarsi col cappello in mano a pietire un intervento di semplice assorbimento.

L’atto secondo vede il Governo Berlusconi difendere l’italianità della compagnia di bandiera impegnandosi, in piena campagna elettorale, a promuovere una cordata di imprenditori capace di salvare la Compagnia dal fallimento e in grado di rilanciarla sul mercato. Ricorderanno tutti i frizzi e i lazzi sulla cordata: fuori i nomi; si tratta di sicuro dei suoi figli; è il classico gioco delle tre carte; un imbroglio destinato a sciogliersi come neve al sole dopo le elezioni; se ha fallito Prodi con Air France dove vuole andare il megalomane?; e via di questo passo. A dar manforte a lor signori, come sempre, la grande stampa italiana e, perché no?, anche quella straniera.

Il terzo atto comincia con la vittoria di Berlusconi. Mentre il premier affronta le emergenze più impellenti come quella dei rifiuti a Napoli, viene tartassato di sollecitazioni a fare i nomi della cordata e il suo silenzio viene propagandato come l’ammissione del bluff elettorale. Superate le emergenze ed affrontati alcuni nodi importanti come la sicurezza dei cittadini, l’immigrazione clandestina, l’abolizione dell’ICI e tutto ciò che si è saputo fare nei primi 100 giorni, Berlusconi affronta il problema Alitalia. La cordata c’è, ne fanno parte fior di imprenditori italiani, e il Presidente è tale Colaninno (padre del giovane imbarcato sul jet di Veltroni, il PD).

E’ il quarto atto che disvela pienamente l’ipocrisia dei comunisti. Nella cordata, la CAI, non ci sono i figli di Berlusconi, la cordata è abbastanza solida e si lavora anche per avere tra i soci (ma solo di minoranza) una grossa compagnia straniera andando anche aldilà dell’orizzonte francese. Mancano, e questo è drammatico per la sinistra, elementi per poterla attaccare frontalmente e farla fallire sul nascere (che importa per le migliaia di dipendenti senza lavoro?). Ma è un lavoro sporco e si delega a farlo un killer di professione: il Sindacato, e per essere sicuri del risultato si lascia libero il campo andandosene negli States.

Al ritorno, sul campo di macerie, si potrà dar vita al solito show fatto di attacchi, lamenti, accuse: chissà forse si riuscirà a far cambiare il vento. Ma al ritorno il nostro Walter trova la sinistra isolata, il sindacato alle corde, Berlusconi e il suo Governo alle stelle nei sondaggi, e una opinione pubblica inferocita contro la sinistra e i sindacati, e fortemente favorevole all’accordo pro Alitalia. E allora: indietro tutta. Basta una letterina per dire il merito è mio, soltanto mio. Ma a chi lo dice? Chiaramente solo a se stesso perché neanche i suoi gli possono credere. Figuriamoci il solito Di Pietro che imperterrito continua a cavalcare l’opposizione a prescindere.

Anche per questo i socialisti del Nuovo PSI di Stefano Caldoro hanno scelto di stare nel Popolo delle Libertà. La doppiezza, l’ipocrisia e la menzogna sono nemici giurati dei riformisti.
Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 28.09.2008

DEL TURCO, IL TEMPO E’ SEMPRE GALANTUOMO

L’arresto di Ottaviano Del Turco è l’ennesima vicenda choc che ripropone l’urgenza di una profonda riforma del sistema giudiziario italiano. Ancora una volta tintinnano le manette e solo fra alcuni anni sapremo se legittimamente o meno. Intanto un cittadino senza, ancora, un giudizio finisce dietro le sbarre, e le prime pagine dei giornali, com’è naturale visto il personaggio, sono piene di titoloni. La vicenda, però, se non si è come Di Pietro, offre spunti per una riflessione che va aldilà degli schieramenti l’un contro l’altro armati.

E vediamo perché, partendo da una semplice domanda che merita una altrettanto semplicissima risposta. Perché è stato arrestato Ottaviano Del Turco? Qual’era la necessità che ha spinto pm e gip a privarlo della libertà? Francamente sembra impossibile rispondere a queste semplici domande. Ma se rifiutiamo la lettura del sen. Francesco Cossiga che sostiene essere ‘un avviso a Veltroni e a sua moglie’, bisogna rifarsi a quello che pensa la gente comune in questo nostro martoriato Paese, e cioè al solito trito e ritrito protagonismo di alcuni magistrati.

L’arresto in Italia è previsto solo, e sottolineo solo , in fragranza di reato ex art. 380 ccp, e, negli altri casi, se c’è pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove e pericolosità sociale. Tre ipotesi assolutamente inesistenti nel caso specifico: niente fuga (se avesse dovuto farlo lo avrebbe fatto da tempo dato che le indagini sono in corso da parecchio), impossibile inquinare le prove (essendo l’inquisito sotto i riflettori delle indagini), e niente pericolosità sociale (non si tratta chiaramente di un mafioso o un camorrista). Ma intanto è stato lo stesso sbattuto dietro le sbarre di un carcere. Non ha ragione Silvio Berlusconi quando dice che ‘bisogna riformare la giustizia ad imis, cioè in modo radicale’?

Ne sono convinti un po’ tutti, ma l’atteggiamento ostile contro il premier è tale che dopo aver criticato aspramente l’atteggiamento di Berlusconi teso a sfruttare tutte le palle al balzo, si afferma, nei fatti, che l’arresto era inutile ed eccessivo. Illuminante in questa direzione quanto sentito in una nota trasmissione radiofonica, ieri sera, dove le arrampicate sugli specchi sono state una operazione incredibilmente faticosa. Dissentire in modo netto da Silvio Berlusconi, ma non potergli dar torto nei fatti è l’ultima trovata dei commentatori di sinistra.

Nella vicenda, comunque, ci rifiutiamo di schierarci pro o contro l’innocenza di Del Turco. Non è questo in discussione, quanto l’uso spregiudicato che si fa dei poteri giudiziari. Ottaviano Del Turco, come ricordano i socialisti, fu il ‘liquidatore’ del vecchio PSI craxiano, il suo ‘necroforo’ ufficiale. La ‘liquidazione’ fu condotta, assieme a Giorgio Benvenuto, con tale acrimonia e tale veemenza (‘non mi stupisco affatto dell’esistenza del partito degli affari nel PSI’ disse) che mise in difficoltà molti militanti sulla possibile colpevolezza di Bettino Craxi. Ma il tempo è stato galantuomo, e le mascalzonate si sono rivelate per quello che erano effettivamente.

La vicenda offre, comunque, l’occasione per una considerazione. Se Del Turco, oggi, dovesse risultare colpevole, le parole pronunciate ieri contro Craxi, erano solo un meschino personale paravento; se, al contrario, dovesse, come ci auguriamo, risultare innocente, credo che finalmente capirà lo stato d’animo di chi, come Bettino Craxi, subiva la gogna mediatica dell’allora vincente pool di Milano, e doveva ‘sopportare’ le insinuazioni di un proprio ingrato compagno di partito.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 15.7.2008

I SALTIMBANCHI DI PIAZZA NAVONA SONO UNA VERGOGNA PER IL PAESE

Vergogna, vergogna, vergogna. Quanto avvenuto a Piazza Navona è una vergogna. per i protagonisti, per chi li ha allevati, per chi li ha fatti entrare in Parlamento, per chi pensava di tenerli sotto controllo e li ha preferiti ai socialisti di Boselli che sono, rispetto al ‘molisano’, di un altro pianeta con differenza politica valutabile in anni luce. Non abbiamo alcuna remora a dirlo noi del Nuovo PSI. Gli errori di Boselli sono altri, non certamente quelli del qualunquismo e del giustizialismo che, forse, sono stati alla base della loro liquidazione per mano comunista.

Potremmo chiudere quì la riflessione dicendo soltanto, chi è causa del suo mal pianga se stesso. Ma il male purtroppo non ricade solo su chi lo ha provocato, ma sull’intero Paese che continua ad essere sottoposto a fibrillazioni inaccettabili. La vicenda, tra l’altro, deve essere assunta come riflessione tesa a correggere, ce lo auguriamo, gli errori che ne sono stati la genesi.

Se per anni in Italia si è gridato al pericolo del regime, al pericolo del fascismo, e che anzi era alle porte una terribile dittatura, non solo si permettono le sconcezze sentite in Piazza Navona, ma si spingono le nuove generazioni a non capire cos’è stato veramente il fascismo. Se si afferma continuamente che oggi siamo in un regime autoritario e che se avesse vinto Berlusconi c’era chi avrebbe abbandonato l’Italia, senza poi farlo, è chiaro che i giovani arrivano alla conclusione che quello del ventennio, in fin dei conti, non era quella terribile dittatura così come riportano i libri di storia. Poveri noi, se quattro intellettuali che si sentono superiori a tutti, per un solo quarto d’ora di protagonismo, diventano veicolo certo di disinformazione.

Se ogni porcata contro Berlusconi ed i suoi alleati viene giustificata perchè “è satira” e la satira non deve essere censurata, si autorizza la Sabina Guzzanti a dire tutto e il contrario di tutto, passando da una porcata all’altra senza alcuna remora, se non quella di evitare d’essere una persona civile perché nella gara a chi la sparava più grossa non bisognava essere seconda a nessuno, ma anche per ‘evitare’ di non venire accusata d’essere condizionata da quella testa lucida e pensante del senatore Paolo Guzzanti, che è anche suo padre.

Se, dopo l’imbarco del Di Pietro, e dopo il fallimento del suo ‘controllo’ anziché mandarlo a quel paese anche perché non ‘c’azzecca’ nulla con la politica, si è deciso di inseguirlo sul suo terreno preferito, ch’è la caccia al Cavaliere Berlusconi, e quest’inseguimento ha messo in discussione anche un nuovo modo di fare politica costruito sul dialogo e sull’assunto che l’avversario non è un nemico da abbattere, è chiaro che il nostro descamisados si senta l’ombelico del mondo ed è convinto di poter invertire il rapporto con il PD.

Se con le platee fornite dagli ex comunisti si è costruito il personaggio Grillo e, con soddisfazione, si sono esaltate le sue performance, non era possibile pensare che il percorso del personaggio potesse essere ricondotto a fenomeno passeggero facilmente assorbibile, anche perché il mare di soldi accumulati dal Beppe nazionale con i ‘suoi spettacoli’ è tale che per alimentarlo le sparerà sempre più grosse. Sono errori che si pagavo salatamene, ed è quello che oggi sarà costretto a pagare Walter Veltroni e il suo PD, se è vero che i sondaggi danno in crescita il gradimento dell’odiato Cavaliere.

Lungi da noi il “tanto peggio, tanto meglio”. Esso non è nella nostra cultura. Non gioiamo per le disgrazie altrui che possono, tra l’altro, diventare disgrazie per tutto il Paese: i saltimbanchi non sono la politica, ma solo e soltanto una vergogna per l’intero Paese, e sulla vergogna non si costruisce niente.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 10.07.2008

Edizione 141 del 09-07-2008

Il successo di un congresso che non si doveva fare

Resurrezione socialista

di Biagio Marzo

Rino Formica, che è uno che non le manda a dire, aveva affermato ( il Riformista), da par suo, che non

era proprio il caso che si svolgesse il Congresso socialista. Probabilmente, per il fatto che i risultati

elettorali non avevano permesso al Ps di eleggere un gruppo parlamentare e visto che lo svolgimento

delle assise locali non avevano alimentato un dibattito politico. Anzi. Vero è che su parecchie cose

socialiste, ha ragione da vendere, epperò, è stato smentito in pieno, perché, a Montecatini, i socialisti

hanno dato il meglio di sé. Quello che hanno potuto fare e dare nelle condizioni in cui si trovano.

L’handicap di essere fuori dal Parlamento non è una cosa di poco conto. Tuttavia, è venuta fuori in modo

preponderante la voglia di lottare per ritornare sulla scena politica come attori, lungo la tradizione del

socialismo italiano. Si intende in modo nuovo, rompendo i vecchi schemi: non più lotta parlamentare,

ma lotta al fianco del cittadino in carne e ossa. Il che non significa che il Ps non abbia alcune “idee

forza” sul piano del programma di governo, con le quali aprire un confronto tanto con maggioranza

quanto con il resto dell’opposizione. Partito di governo e di movimento, per l’appunto. Per supplire

all’assenza dalle Camere, il Ps sceglie di gettarsi nell’esperienza movimentista, senza allontanarsi

dall’essere sinistra di governo.

Il tutto in chiave autonomista, garibaldina e corsara. Autonomista non come sinonimo di autosufficienza

che porta all’annullamento politico, ma alla libertà di essere fuori dai giochi delle due coalizioni in

campo, spinte artatamente per interessi di bottega al bipartitismo. Il quale è stato issato come bandiera

di combattimento da Berlusconi e Veltroni, perché entrambi, prendendo a pretesto il bene della

democrazia parlamentare e del Paese in particolare, hanno inneggiato al voto utile; insomma, al voto a

una delle due coalizioni. Ragion per cui, hanno svolto la campagna elettorale sull’onda della

semplificazione del sistema partitico, raccogliendo, immeritatamente, una messe di voti a scapito dei

partiti medi e piccoli, anziché approvare una legge elettorale meno oligarchica e partitocratica di quella

in vigore e senza svolgere minimamente un ragionamento politico secondo cui la Grande riforma è la

madre del rinnovamento istituzionale e politico italiano.

Garibaldina nel senso che i “Mille” socialisti rimasti in campo sono forza dinamica, pronti a tutto per

conquistare la terra perduta e per riscattarsi dall’onta delle sconfitte e delle offese subite. Consapevoli,

peraltro, che la loro storia è più grande dello 0,98% acquisito nell’ultima tornata elettorale. Corsara sta

per libertà di alleanze negli enti locali, non avendo nessuno contrattato alcun impegno con nessuno.

Seppure guerra di corsa, il vascello Ps deve navigare in mare aperto, seguendo la rotta riformista: da un

lato il Pd, dall’altro l’Udc, senza sottrarsi al confronto con le altre forze riformiste tra cui quelle di origine

socialista presenti nel Pdl. Argomento, questo, sul quale si è battuto molto Gianni De Michelis e si è

speso Bobo Craxi. Una bella scommessa non c’è che dire e Nencini è cosciente che per vincerla bisogna

partire dalle sfide, che sono il pane del socialismo, senza le quali esso sarebbe un reperto archeologico.

La fine che rischia di fare la socialdemocrazia se non riuscirà a rinnovarsi sul piano culturale, politico e

programmatico. E comunque, è iniziato il periodo post Sdi-Boselli, con la nascita del Ps e con l’elezione

di Nencini a segretario. A Enrico Boselli vanno riconosciuti meriti e demeriti. In primo luogo, per essersi

battuto per l’unità, dopo un lungo periodo di diaspora; in secondo luogo, per non aver accettato il diktat

di Veltroni di passare armi e bagagli nel Pd.

Naturalmente, questo avrebbe comportato la fine della peculiarità, del ruolo e della funzione dei

socialisti italiani. Finché questi sono vivi e vegeti, benché a ranghi ridotti, restano una spina nel fianco

del Pd e non solo. Con l’intento che il sogno possa trasformarsi in realtà al più presto, e che l’Italia abbia

bisogno di socialismo. I demeriti di Boselli. Soprattutto uno: di aver insistito su una linea politica che

non era nel Dna del socialismo italiano. Piuttosto che rubarla senza successo a Pannella, avrebbe potuto

riproporgli la Rosa nel Pugno, facendo di necessità virtù. Comunque sia, già i buoi erano scappati dalla

stalla. Alla fine i socialisti soli soletti e i radicali in un compagnia. Una compagnia scomoda, quella del

Pd, e fuori dalla loro cultura politica, ma comoda per essere eletti e per affermare, dopo le elezioni, di

essere una delegazione nel Pd. Come se il Pd fosse una sorta di Onu. A Boselli va addebitato un altro

demerito. Il fallimento della Costituente prodromo del flop elettorale. E qui c’è la responsabilità

personale anche del comitato costituente, che ha lasciato fare e disfare a Boselli come ha voluto, senza

mai opporsi, compresa la sua candidatura alla premiership.

Un comitato che ha peccato di deficit politico e di una visione strategica d’insieme sul futuro della

questione socialista. Vale o no la pena battersi per le sue idee? Invece di volare alto, si sono viste le

prime smagliature nelle “Primarie delle idee”. Un Convegno di cui non è restata traccia. A Montecatini,

proprio per la conduzione della Costituente, gli esponenti più in vista hanno lasciato le penne. Tutto il

potere ai soviet, senz’altro. Le luci si sono spente sul congresso di Montecatini ed è stato merito di

Riccardo Nencini aver saputo dare vigore all’azione e all’iniziativa socialista, vigore di cui, per la verità,

si sentiva da molto tempo bisogno. Dopo Montecatini il Ps è entrato, finalmente, nel mercato politico e si

appresta a essere competitivo. Dio ce la mandi buona.

 Da L’Opinione

Intervista a Cossiga: dal Corriere della Sera

Cossiga compie 80 anni: Moro?
Sapevo di averlo condannato a morte
«La strage di Bologna, fu un incidente della resistenza palestinese»

Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant’anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: “Pelle mala no moridi”; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all’eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, “A carte scoperte”, scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c’era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — “Damnatio memoriae in vita” — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent’anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell’uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?
«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l’è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla “storia criminale” d’Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'”album di famiglia” della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell’innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?
«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l’esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: “Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano”».

C’è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?
«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?
«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente… ».

E’ sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: “Io non c’andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti”».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?
«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle “disgrazie” di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all’odore dell’inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all’Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal ’92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?
«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln…».

Ci sono accuse più recenti.
«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee? «E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D’Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l’unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D’Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E’ vero che lei ha un figlio “di destra” e una figlia, Annamaria, “di sinistra”?«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E’ stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l’ho amata molto».

Aldo Cazzullo
08 luglio 2008

CONGRESSO PS, PERDUTA L’ULTIMA OCCASIONE

Fin quando le ultime truppe del fu grande partito socialista, per intenderci quello craxiano, continueranno a mordersi la coda, o a girare come farfalline attorno alla lampadina non c’è, purtroppo, alcuna speranza di recuperare altre importanti forze all’impegno riformista, ma neanche la speranza di assistere alla promozione di una nuova classe dirigente che abbia un segno distintivo rispetto al passato, quali la discontinuità ed il salto generazionale.

Il Congresso del PS a Montecatini ha sostanzialmente mancato l’appuntamento con un percorso nuovo. Ancora una volta si è data l’impressione di assistere ad un film già visto. E’ vero che c’è stato il ‘nuovo’ rappresentato da Nencini , che ci sono stati i fischi a Walter Veltroni ed al suo PD, e che c’è stata la richiesta di ‘rompere’ con Di Pietro, ma sembrano (e in politica è estremamente importante) atti dovuti dopo una drammatica sconfitta. Infatti, Boselli doveva essere sostituito, se non altro per l’accanimento terapeutico che lo ha visto protagonista nel rapporto stretto con Prodi ; Veltroni, amante ingrato, doveva essere fischiato, se non altro per salvare la faccia di chi vuol continuare a perseverare negli errori; e la richiesta di rottura con Di Pietro è sembrata poco convincente, se non altro perché presentata tardivamente e dopo aver subìto la sindrome di Stoccolma.

Ancora una volta si è perduta un’occasione, nel caso l’occasione principe, per avviare realmente un percorso nuovo. Tutto, infatti, è sembrato finalizzato alla ‘ricostruzione’ di un rapporto col PD, un rapporto comunque senza pari dignità. Peccato, perché almeno in provincia ci sono energie sprecate o poco utilizzate che si stanno formando, senza vera politica, ma solo nel gioco dell’accattonaggio politico. Peccato veramente, perché il riformismo ha bisogno di allargare i propri confini, ha bisogno di nuove energie, deve esso stesso sapersi rinnovare.

Quando si è prigionieri delle proprie nomenclature (con o senza Boselli il discorso è lo stesso) è certo il rischio che esse impongono la strada che punta alla propria sopravvivenza ritagliandosi uno spazio che, prima il PD si è rifiutato di concedere, ma che adesso (dopo la sconfitta) sembra disponibile a concedere. Da quà la scelta “a sinistra a prescindere”, che stava in bell’evidenza nel dibattito congressuale, ben sapendo che politicamente il frontismo è la negazione del riformismo, della sana politica, del confronto, del buon governo.

All’Italia e agli italiani non interessa sapere dove, fisicamente, si vanno a sedere i deputati ma interessa sapere quale politica sono disposti a sostenere. La scelta di far vincere il PdL, col margine che tutti ricordano, ha proprio questo connotato, aver voluto sostenere una determinata politica. Il PdL e Silvio Berlusconi sono l’espressione netta del riformismo, della sana politica e del buon governo, che non sono solo ‘marchi di qualità’, ma sono scelte concrete che viaggiano sulle gambe di una nutrita schiera di riformisti doc.

Il Nuovo PSI di Stefano Caldoro sostiene questa politica. Ha scelto da tempo di far parte, come forza riformista moderna e moderata, di questo schieramento che rifiuta, come sarebbe giusto e necessario per ogni forza socialista, l’alleanza con la parte più conservatrice e dogmatica che circola nel Paese e che, di volta in volta, tenta di camuffarsi. Ma su questo ritorneremo.

Giovanni ALVARO

Viaggio a Montecatini tra Samurai e Filibustieri

Il primo congresso dei socialisti italiani concluso a Monetecatini domenica 6 luglio
porta con sè luci ed ombre.
Tra i bagliori luccica sicuramente la conclusione unitaria. Tutti insieme mossi dalla
necessità di unire gli sforzi e non sprecare, per divisioni interne, le poche energie
a disposizione.
Un raggio luminoso viene anche dal nuovo segretario Riccardo Nencini. Un uomo
sicuramente nuovo, ma non inesperto. Preparato. Uno sguardo pulito e sincero.
Lontano da atteggiamenti arroganti e presuntosi che tanto danno hanno
fatto e fanno all’interno della nostra organizzazione. Insomma: “una persona per
bene”.
Molto dipenderà da lui e da quanto potrà fare per riconvertire le logiche di potere
sclerotizzate nei vecchia apparati.
Una buona partecipazione, una buona organizzazione e tutto sommato anche
una notevole immagine mediatica. Ci ha aiutato sicuramente la contestazione a
Walter Veltroni, ma anche per questo, del congresso socialista si è parlato molto
sui giornali ed in televisione. Molto più di quanto i numeri imponevano.
Le aree buie invece persistono nei contenuti e nelle elaborazioni per lo più stantie
e scontate. Tanti sforzi per l’elaborazione formale dei discorsi. Un grande impegno
sullo stile del racconto, sugli effetti dell’applauso, ma poco, forse troppo
poco di nuovo è stato proposto, o meglio, è stato deciso.
Rimane ancora avvolto nelle tenebre il nuovo gruppo dirigente. Quello succedutosi
sul palco per il 90 per cento è lo stesso visto negli ultimi quindici anni di storia
socialista. Eppure c’era una discreta presenza di giovani. Forse la loro timidezza
o forse il protagonismo obeso ed appesantito dei “vecchi” gli hanno impedito
di esprimersi.
Semioscura è rimasta la linea politica divisa tra chi difende come Shoichi Yokov,
l’ultimo dei soldati giapponesi scoperto ed arresosi nel 1972 nell’isola di Guam, la
linea di “a sinistra sempre, solo ed unicamente” e chi, come dei novelli Francis
Drake, invitano il Partito a scorribande corsare all’interno dei due schieramenti
italiani.
Prevarranno i Samurai o i filubustieri? Difficile dirlo, di certo il congresso non si è
espresso. Questa incertezza dovrà essere sciolta pena la fine della speranza che
il Congresso ha dato.
Mai come oggi, in una situazione così difficile e drammatica, conterà l’intelligenza
ed il valore del gruppo dirigente nazionale e locale.
Se continueranno a prevalere le convenienze personali, rispetto alla politica, la
fine è già scritta.
Le speranze del Partito risiedono tutte nella sua capacità di riprendere autonomia
ed identità. Nulla deve essere precostituito se non l’idea riformista socialista. Alleanze,
scelte, strategie ed uomini dovranno essere messe a disposizione
dell’opportunità della politica e non degli interessi individuali.
Il respiro collettivo è l’unico ossigeno possibile per un malato grave come il socialismo
italiano.
Questo è il primo grande, difficilissimo compito che ha davanti a se il nuovo segretario.
Ostacolo non raggirabile e non rinviabile.
Come in ogni attività umana, per ricostruire, riconvertire, ristrutturare, ripartire è
necessario un nuovo progetto ed un nuovo management e la ricerca è tra i migliori
disponibili non tra i supponenti di un potere che nessuno ha più.
Sergio Verrecchia

CONGRESSO PS: NENCINI, NO SBARRAMENTO EUROPEE, DIALOGO CON UDC (3)=

(AGI) – Montecatini Terme, 6 lug – Nencini sulla situazione economica aggiunge: “Bene ha fatto Veltroni a richiamare l’attenzione sulla prospettiva dura, se non durissima, che aspetta le famiglie italiane in autunno. Sgombreremo il campo il prima possibile dalle questioni altre per dedicarci a provvedimenti necessari a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Berlusconi ed il Governo non usino le emergenze, piu’ o meno create ad arte, per nascondere una politica economica che ancora non decolla”.
Nel suo intervento di chiusura al congresso, Nencini propone un patto federativo a liberali, azionisti, movimento dei 101, repubblicani. A Walter Veltroni “chiediamo di portare alle estreme conseguenze la proposta che ci ha fatto: un nuovo centro-sinistra, una opposizione riformista fondata sul Pse.
Sciogliere l’apparentamento con l’Idv e’ interesse comune di tutti i riformisti”. Ai radicali Nencini chiede di sostenere le 3 campagne pubbliche del Ps su scuola, precari, caro bollette.

Apc-PS/ VELTRONI AL CONGRESSO, SOTTO I FISCHI C’E’ IL DIALOGO

Leader Pd apre, Nencini apprezza riconoscimento autonomia

Montecatini Terme, 5 lug. (Apcom) – “Non mi aspettavo gli applausi…”, ammette Walter Veltroni ai cronisti appena uscito dal Palazzo dei Congressi di Montecatini Terme, seconda giornata del congresso fondativo del Partito Socialista. Un’ora prima i delegati avevano accolto il suo ingresso con una salva di fischi, una disapprovazione così plateale da lasciare “amareggiato” Ugo Intini, sul podio in quel momento, secondo il quale “non è mai successa una cosa del genere in un’assemblea socialista”: e pazienza per il Berlinguer fischiato nell’84 a Verona con Bettino Craxi che disse “non mi posso unire a quei fischi solo perché non so fischiare”, e per il D’Alema coperto dai ‘buuu’ nel ’99 a Fiuggi, congresso fondativo dello Sdi, quando lodò il ‘grande traditore’ Giuliano Amato.

Intini, che pure c’era a Verona e a Fiuggi, ribadisce che “siamo un partito democratico, siamo abituati a discutere con tutti”.
Ha ragione: se la platea fischia, i leader del nuovo partito accolgono con soddisfazione l’apertura al dialogo da parte del leader del Pd, il quale afferma di voler “costruire un nuovo centrosinistra che non sia la ripetizione delle stagioni dell’Unione”, perché “il centrosinistra nuovo non deve essere l’assemblea di tutti coloro che non sono d’accordo con Berlusconi, ma deve avere una base programmatica”. Il Ps può e deve essere della partita: “Sulla base del rispetto dell’identità e della storia di entrambi – ha aggiunto Veltroni – io penso si possano creare nuovi rapporti tra forze autonome che vogliono fare un tratto di cammino insieme”. Una linea confermata, fuori dalla sala, da Vannino Chiti che riconosce nella relazione di Riccardo Nencini, sempre più vicino all’elezione a segretario per domattina, “un percorso di confronto e dialogo che è necessario, perché occorre costruire un’unità di tutte le forze riformiste”.

Soddisfazione confermata dai commenti del post-intervento: “Giudico positiva la proposta di Veltroni di costruire un nuovo centrosinistra fra forze autonome e riformiste”, ha detto Nencini, che ritiene “importante il riconoscimento che il leader Pd ha fatto dell’autonomia e dell’identità socialista, chiamando contemporaneamente alla collaborazione e al confronto”. Gongola l’ex compagno di partito Gavino Angius: “Il significato della presenza di Veltroni qui, le parole che ha detto – ha osservato – sono il riconoscimento del ruolo e dell’autonomia del nascente Partito Socialista, e sono di fatto un esplicito cambiamento di linea politica rispetto al passato”.

L’ipotesi di lavoro ricorrente è quella di un “campo largo” delle forze riformiste che ora stanno all’opposizione: quindi niente Di Pietro, “che non è riformista”, chiosa Angius, e i fischi che accolgono l’esponente Idv Fabio Evangelisti non mentono. Largo invece all’intesa, già evocata ieri da Nencini, con l’Udc, “con cui il rapporto può essere decisivo”, dice il vecchio leone del garofano Gianni De Michelis, per il quale “bisogna escludere ogni convergenza con la sinistra massimalista”, perché “il tratto di mare nel quale cercheremo di navigare sarà quello tra Pd e Pdl, esattamente dove si colloca Casini”. I fratelli separati del Nuovo Psi, per bocca del suo leader Stefano Caldoro, invitano gli ex compagni a riconoscere “i meriti del Governo” in tema di battaglie riformiste, piuttosto che “ascoltare le sirene del Pd”.

DOPO “LOTTA CONTINUA”, VA IN SCENA “GUERRA CONTINUA”

Dopo l’infausta “lotta continua” dei lustri passati, va ormai da tempo in scena “guerra continua”. Quella guerra che, senza esclusione di colpi, si combatte ormai da tempo contro Silvio Berlusconi reo d’aver saputo dare, al popolo moderato di questo Paese, una alternativa organizzata ch’è stata capace di mettere fuori gioco (e non per caso fortuito) la ‘gioiosa macchina da guerra’ d’occhettiana memoria.

Come i presuntuosi di lotta continua, a suo tempo impegnati, inutilmente, a distruggere la borghesia e il capitalismo, si muovono gli strateghi di guerra continua che, anch’essa inutilmente, si sviluppa sull’altare dell’obiettivo di distruzione del pericolo pubblico n. 1, dimostrando così un’incredibile cecità politica.

A nulla sono valsi i risultati elettorali dell’anno scorso che hanno sancito, senza possibilità d’appello, la simbiosi tra popolo e leader del PdL; a nulla i clamorosi risultati registrati domenica scorsa in Sicilia dove è venuta meno la prassi che vuole sconfitti, alle amministrative dell’oggi, i vincitori delle politiche di ieri; a nulla l’aver constatato che il sentimento popolare di adesione al programma dei riformisti e dei moderati è ben saldo e difficilmente modificabile. E questo lo sanno anche lor signori.

Perché quindi l’agitarsi e la ripresa della criminalizzazione dell’avversario? Perché la messa in scena del becero armamentario già abbondantemente ignorato dall’elettorato? Perché di nuovo scenari che ipotizzano pericoli per la democrazia? La risposta è una sola: tutto è riconducibile alla “rincorsa continua”.

La rincorsa di quel Di Pietro allevato dalla sinistra ed oggi loro acerrimo concorrente sul terreno del qualunquismo e del giustizialismo (l’assenza di idee fa amare il sangue); la rincorsa del partito delle toghe che non vuole cedere neanche un millimetro del proprio potere e tiene sotto scacco anche il PD; la rincorsa di grilli, grillini, santoni, santori e guru vari, con l’obiettivo non di conquistare consensi ma di non perderli, e soprattutto per parare i colpi di una sorda lotta interna che sta mettendo in grave difficoltà il buonista (?) Veltroni. Ma se questo è vero, esso dimostra la straordinaria debolezza di un dirigente che piega le proprie posizioni politiche alle necessità, non del Paese che anche con l’opposizione si è chiamati a governare, ma della difficile vita interna del proprio partito.

Del resto, se si guarda al merito della vicenda, ci si accorge che l’atteggiamento del PD è semplicemente strumentale, e costruito su inesistenti emendamenti ‘salvapremier’. L’emendamento in questione, infatti, è condividibilissimo ed è necessario. L’obbligatorietà dell’azione penale costringe i PM a fare delle scelte, privilegiando alcuni filoni a discapito di altri. Stavolta col decreto emendato la scelta viene sottratta al loro arbitrio (spesso piegato a ragioni politiche) e, snellendo il mare magnum dei reati che ingolfano le procure, privilegia l’azione penale dei reati che comportano pene superiori ai 10 anni. Cosa c’è di scandaloso?

Il decreto è, quindi, sacrosanto, mentre il timido Aventino della Finocchiaro è una assurda sceneggiata senza alcun costrutto. Continuino pure così, il PdL e i suoi alleati non debbono farsi condizionare da questi teatrini, ma debbono andare avanti con il loro “governo continuo”.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 17.06.2008

Dal sito della Costituente

Lettera ai socialisti dopo Chianciano. Mauro Del Bue

Cari compagni,

inutile negarlo. Siamo finiti sotto il diluvio del 13-14 aprile. Poteva andare diversamente? Io penso di sì, ma avremmo dovuto impostare in modo diverso la nostra Costituente. Al congresso del partito che mi ha eletto segretario (l’ex Nuovo Psi), nel luglio del 2007, proposi una Costituente liberalsocialista e non semplicemente socialista. Pensavo che sarebbe stato utile non disperdere il patrimonio della Rosa nel pugno, inteso come punto di incontro di socialisti, radicali laici e liberali, alla quale, nella Primavera del 2006, avevamo scelto di non aderire semplicemente perché collocata nell’Unione, ma che avevamo ugualmente salutato come esito naturale ed opportuno di tradizioni legate da tante battaglie comuni. Tanto che nel 2006 proponemmo che fosse Emma Bonino a guidare un polo laico che si contrapponesse sia a Berlusconi sia a Prodi. Dopo la fine dell’Unione, proposi ai compagni della Costituente di costruire un’alleanza coi compagni radicali, per sottoporre a Veltroni un nuovo soggetto apparentato. Mi è stato risposto negativamente e dopo il mancato apparentamento avanzai l’idea, e non fui io solo a farlo, che fosse Emma Bonino a guidare una lista comune di socialisti e radicali. La proposta è stata bocciata e qualcuno ha aggiunto testualmente che era un errore “boninizzare” la nostra lista. Oggi ci ritroviamo sommersi dal diluvio con un risultato elettorale che è il più umiliante della storia, anche recente, dei socialisti. Mai, nessuna frazione del vecchio Psi ha ottenuto meno dell’1% in nessuna competizione elettorale dal 1994 ad oggi. E questo dovrebbe spingere tutti a cercare le motivazioni di questo infausto risultato e dovrebbe indurre tutti a tentare di individuare una prospettiva. Perché ci sia un approdo, dopo il diluvio, perché rinasca una speranza di futuro. Ci si dovrebbe preoccupare, più che del nome del nuovo segretario, di cercare una via di uscita dal fondo del mare in cui siamo stati cacciati. Non abbiamo bisogno di bombole ad ossigeno che hanno tutte un tempo limitato. Dobbiamo riemergere e tentare un approdo. Per questo ho accettato la proposta di Marco Pannella di iniziare insieme una riflessione e poi di definire un percorso per dare vita ad una tendenza liberalsocialista in Italia. Questa tendenza oggi vive in tante direzioni: ci sono i radicali, i socialisti del Ps, i socialisti presenti anche nell’Arcobaleno, laici, liberali e socialisti sia nel Pd, sia nel Popolo delle libertà, ove abbondano in Parlamento esponenti che provengono dal vecchio Psi. Non dobbiamo averne paura. Dobbiamo sfidarli, vigilando sulla loro coerenza. Dobbiamo lanciare la sfida laica, liberale, riformista, cui dovranno rispondere coi loro atteggiamenti politico-parlamentari quotidiani. La sfida sulle liberalizzazioni e sui diritti civili, la sfida sulle grandi questioni dell’ambiente, oggi senza interpreti parlamentari tradizionali, quella sulla giustizia giusta e anche sulla moralità della politica, che non si misura solo col suo costo, ma anche sulla coerenza degli atteggiamenti (quello di Di Pietro che prima sottoscrive accordi col Pd e poi li disattende in modo così clamoroso è davvero eclatante). Penso che i socialisti che non intendono nè consegnarsi al Pd né arrendersi all’ineluttabilità del loro declino e della loro estinzione, e non pensano che una tattica di sopravvivenza all’interno di un contenitore senza voti possa essere la ricetta, debbano sentirsi coinvolti in questo inizio d’una marcia che non credo abbia solide alternative. Lo abbiamo detto in conclusione del Convegno di Chianciano, parafrasando un famoso slogan del Maggio francese: “Ce n’est qu’un debout, continuons le combat” . I socialisti hanno ancora voglia di combattere. Sono stanchi di essere umiliati. E hanno voglia di speranza e di futuro. Da Chianciano, dalla possibilità di mettere insieme socialisti, radicali, laici e liberali, dalle disponibilità emerse in più direzioni, dal gruppo parlamentare di radicali che c’è e che può fungere da aggancio istituzionale assai utile (i radicali non hanno aderito né al Pd né genericamente al gruppo parlamentare del Pd, ma hanno composto una loro delegazione autonoma nel gruppo democratico, come del resto era negli accordi) è stato deposto un primo tassello. Credo valga davvero la pena di continuare. Lo so che quanti hanno vissuto, prima con passione poi con delusione la vita della Rosa nel pugno, questa prospettiva possa anche non essere salutata con entusiasmo. Ma mi chiedo, caro compagni, c’è qualcuno che ha qualcosa di meglio da proporre, oggi?

Fraterni saluti Mauro Del Bue

TENTARE DI TRASFORMARE LE ROSE IN GAROFANI

Che dopo la debacle elettorale dei Costituenti (?) socialisti, si avviasse un serrato dibattito era tra le cose non solo possibili ma necessarie. Ma va evitato che, per l’ennesima volta, ci si attorcigli su se stessi con analisi tese solo all’autogiustificazione o a dar la colpa al destino cinico e baro determinato dal solo Walter Veltroni. Questo tipo di dibattito servirebbe solo all’autocommiserazione, ma non certamente a riannodare i legami dei riformisti genuinamente craxiani. Altra cosa è invece riconoscere gli errori commessi, rileggere la realtà che sta di fronte e conseguentemente decidere sul famoso che fare? Ho, quindi, apprezzato il contributo di Sergio Verrecchia, non nuovo comunque a coraggiose affermazioni anche se poi, non seguite dai fatti con le necessarie scelte politiche. Ma anche Del Bue ha teso a mettere i piedi nel piatto.

Tre mi sembrano, comunque, le affermazioni da riprendere. Due da condividere, e una un po’ meno. La prima (meglio tardi che mai) è riferita al superamento della divisione nominalistica tra destra e sinistra dietro cui si nasconde, da sempre, l’azione staliniana per criminalizzare chi osa liberarsi dalla egemonia gramsciana dei comunisti. Verrecchia introduce, e la cosa ci fa molto piacere, i concetti di progressisti e conservatori riferiti ai nuovi bisogni della società ed alle resistenze ‘conservatrici’ per affrontarle. Al popolo della sinistra può sembrare incredibile, ma i conservatori non stanno dalla parte di Silvio Berlusconi, ma dalla parte dei poteri forti (editoria, finanza, grande padronato, ecc.) che gestiscono, da dietro le quinte (ma non troppo), la sinistra camuffata e riciclata.

La seconda, espressa da De Bue, è riferita alla ‘battaglia elettorale’ del PS centrata di più sull’identità socialista, di cui gli italiani hanno fatto a meno, e di meno anzi per nulla sul vero conflitto che si giocava nel Paese tra il Governo Prodi, quello della sinistra, meglio conosciuto come il governo delle tasse e dell’‘armata Brancaleone’, e la stragrande maggioranza dei cittadini. I socialisti del PS guidati da Boselli sembravano di un altro pianeta.

Del Bue e Verrecchia affrontano, poi, il tema partito. Il primo per denunciare l’operazione Costituente basata sul Partito padrone (lo SDI) con ‘altri ospiti (quelli illustri, quelli graditi, quelli sopportati)’, mentre il secondo per denunciare, finalmente, le anomalie di un partito centralizzato che regge, vive, o ha vissuto, per il sostegno di una piccola corte che, a volte, come ai tempi di Gianni De Michelis a Largo Argentina, sembrava veramente la corte dei miracoli. A tutte e due però va detto che non è la forma partito (centralizzato o federalista) che può far superare le difficoltà, quanto una chiara scelta politica che chiuda definitivamente con la subalternità a supremazie che la recente tornata elettorale ha spazzato via senza alcun appello.

Il sottostare, tra l’altro, alle egemonie altrui porta inevitabilmente, per non infastidire il ‘sovrano’, a disconoscere, o mettere in ombra, l’eredità ineliminabile di Bettino Craxi. Ma è solo su questo terreno che può riaprirsi un vero confronto tra le diverse anime, almeno quelle vive, dei socialisti, dichiarando immediatamente, come primo atto, chiuso il grande imbroglio della Costituente.

Anche sulla legge elettorale pensare che il ‘Vassallum’ poteva andare meglio per i piccoli partiti è fuorviante, offre scappatoie allo sconforto dei compagni, e mistifica la realtà, perché pur avendo votato col ‘porcellum’, sono state avviate le prove generali del Vassallum così come ha voluto Veltroni, e Silvio Berlusconi, che non teme le sfide, gli è andato dietro. Non resta che attendere e partecipare al dibattito. Sarà ciò che farà il Nuovo PSI per tentare di trasformare le rose in splendidi garofani.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 21.04.2008

Verrecchia: la fine del ragno

Com’era prevedibile i ragni stanno ritessendo la tela per nascondere il vuoto.
Leggo i nostri commenti alle elezioni: rari e spesso ipocriti.
Non appartengo alla famiglia degli uccelli e quindi non sono né un corvo, né un avvoltoio.
Il regno animale che preferisco muore spesso in combattimento, fiero però di difendere
soprattutto la propria dignità e libertà.
La solidarietà umana al gruppo dirigente nazionale c’è tutta come c’è la considerazione
delle difficoltà che avevano di fronte. La solidarietà però è un sentimento di andata e ritorno.
Non l’ho riscontrato, ad esempio, nelle formazioni delle liste, quando a De Michelis gli
è stato imposto di andare in Sicilia perché le sue condanne erano imbarazzanti per potersi
candidare nel suo Veneto. Come non condivido l’oblio sul nome di Bettino Craxi. Voglio
ricordare ai compagni di solidarietà, vecchi e nuovi, che Bettino è un eroe non un criminale
di cui vergognarsi. Uno statista socialista difficilmente imitabile che è parte fondamentale
dei socialisti italiani.
Ho letto anche le considerazioni della sconfitta di alcuni esponenti del partito. Sarò difficile,
ma le uniche che ho apprezzato per la lucidità, autocritica e intelligenza sono quelle
di De Michelis.
Autocritica, perché Gianni era il fautore della fine del bipolarismo italiano da lui chiamato
bastardo. Tesi nettamente e forse definitivamente, sconfitta dall’ultimi elezioni.
Ritorno a sostenere che le uniche ragioni del nostro disastro sono in noi e solamente in
noi. Perdere era previsto e prevedibile ma la catastrofe ce la siamo voluta.
Sono ragioni di forma, di sostanza e di presunzione.
La forma sta nella palese contraddizione di annunciare la nascita di un nuovo partito con
vecchi volti e vecchie formule. Da una parte non vogliamo richiamarci alla tradizione,
dall’altra non diciamo nulla di nuovo, o di originale. Nelle liste abbiamo attinto dalle riserve
i generali in pensione dell’armata garibaldina, senza più voti, ma pretendendo di dimostrare
così la novità.
Abbiamo dato un segnale di precisa ed inequivocabile ambiguità con il nostro tormentone
vergognoso di pietire ospitalità nel Partito Democratico. La verità che viene oggi a galla ci
rivela che l’unica ragione per cui non abbiamo fatto l’accordo, non è stato per il simbolo
che ci veniva negato, ma per il veto di Veltroni su qualche nome della nostra nomenclatura.
Naturalmente tutto nel segreto di trattative dall’interesse poco collettivo e dal bisogno
individuale di galleggiare in ogni caso.
L’unica provocazione è stata di costume. Corretta e condivisibile la candidatura di Grillini
a Roma. Decisamente fuori misura quella del sedere di Milly D’Abbraccio.
Abbiamo sposato l’anticlericalismo. Un bisogno fuori dagli interessi degli italiani, ma oserei
dire anche dei socialisti.
La presunzione, questa sì dolosa, si è espressa invece nell’occupazione di tutte le testate
di lista dei collegi con lo stesso autoreferenziale minuscolo gruppo dirigente. Come scrive
Mauro Del Bue: sbagliato e scandaloso, che ha impedito alle energie presenti nel territoMauro
Del Bue: sbagliato e scandaloso, che ha impedito alle energie presenti nel territo
rio di impegnarsi in una battaglia di principio e di orgoglio. Però le uniche proteste a cui
ho assisto, in fase di preparazione, erano dirette ad avere uno o due collegi in più rispetto
a quegli assegnati. Non certo ad aprire a nuovi nomi.
La gestione monarchica delle risorse economiche collettive e delle decisioni organizzative
è un’altra responsabilità dolosa.
Una presunzione, non accompagnata dalla capacità, diventa colpevole arroganza.
Cosa fare? Senza ritornare ai corvi, io non ho esempi nella storia passata e recente di
condottieri, leader, imprenditori, santoni che dopo aver rappresentato una sconfitta netta
ed inequivocabile possano tornare a tessere la tela. Se Mauro, lui che è un appassionato
di storia, mi fornisce esempi diversi sono ben lieto di ricredermi.
Io propongo di andare al nuovo. Ad un movimento moderno e proiettato nel futuro che
deve rappresentarsi con una nuova generazione di giovani.
Vanno rinominati e rifatti i principi fondamentali. Sinistra e destra ad esempio non hanno
più senso, come non ha più attualità il termine classe operaia o precariato.
Oggi il confronto si sposta tra progressisti e conservatori. Un concetto che può essere
anche trasversale. Oggi gli interessi da rappresentare sono i nuovi bisogni non più i conflitti
di classi scomparse. L’autonomia, la sicurezza, le libertà appartengono ad un divenire
ancora sconosciuto ed in fase di formazione, ma sicuramente legato al futuro imminente.
Temi che dovranno essere approfonditi se ci sarà mai un congresso di svolta vera e radicale.
Fatica sprecata ed inutile se invece si vorrà restaurare l’insipienza e la cecità politica.
Partiamo subito da una premessa fondamentale: la forma partito. Non ci dovrà più essere
un modello centralista in cui un piccola corte decide per il suo regno.
Il nuovo partito deve essere un movimento federato con fortissima autonomia regionale,
legato nazionalmente nel simbolo e nelle linee strategiche, ma autonomo nelle politiche e
nelle alleanze locali.
Noi non ce n’accorgiamo, ma tutto il mondo va verso autonomie sempre più specializzate
e autogovernate. Succede così nei sistemi sociali, in economia e nelle scienze.
Quello che si pensava essere un modello egoistico e populista della Lega, è invece
un’occasione di crescita e modernità se applicato in tutte il territorio italiano.
Come ogni intuizione, avrà successo, se applicata in modo equilibrato e corretto, sarà un
fallimento se rimarrà solo uno slogan.
Per avviare la nostra rivoluzione interna ci occorrono dei rivoluzionari responsabili.
L’unica nostra speranza si trova nel nuovo e sconosciuto che c’è dentro i nostri militanti.
Non corriamo rischi. Per semplici leggi matematiche, peggio di cosi, non può andare.

Riporto l’intervento di Mauro del Bue: a voi le riflessioni

Intervento dell’on. Del Bue al Comitato costituente
Non mi piacciono coloro che aspettano le sconfitte per tagliare le teste. Esprimo per questo solidarietà umana a Enrico Boselli, che più di tutti si è trovato sulle spalle, com’era naturale e anche comprensibile, il peso della disfatta elettorale.
Non sono mai stato uno dei quelli che cantavano nel coro del “tutto va bene madama la marchesa” e adesso non voglio gridare “dagli all’untore”.
Il risultato è così desolante che sono certo che se individuassimo il rimedio in una semplice rimozione ne deformeremmo il significato.
Pur tuttavia dobbiamo interrogarci e tentare di comprenderlo, se vogliamo tentare di disegnare un futuro praticabile anche per noi.
Non penso a qualche correttivo. Se avessimo ottenuto l’1,5-2% potevano essere anche utili le variazioni parziali. In questa situazione servono forti e immediati segnali di innovazione (non uso il termine “discontinuità” perché è abusato dal politichese).
Oltre tutto, quel che resta di noi attende subito un segnale di vita, di speranza, se no credo che anche quel che resta di noi non resterà con noi.
Sconsiglierei intanto di prendercela con qualcun altro. Rischiamo di diventare patetici. Quando si ha un risultato del genere ce la dobbiamo prendere solo con noi.
Non voglio approfondire alcune questioni che, anche se non hanno influito più di tanto sul voto, pure hanno creato un clima non positivo tra noi e attorno a noi. Ne cito brevemente tre:
1)L’idea che la Costituente si dovesse sviluppare con un partito proprietario, lo Sdi, e altri ospiti (quelli illustri, quelli graditi, quelli sopportati). Noi che proveniamo dal Nuovo Psi abbiamo subito, a causa di questo atteggiamento, alcuni imprevisti prelievi: i consiglieri regionali del Piemonte e della Sardegna e molti dirigenti periferici. Anche nei nostri dibattiti, poi, le opinioni apparivano generalmente superflue, perché c’era chi poi decideva. E non era il Comitato.
2)La composizione delle liste è stata effettuata senza un criterio logico e accettabile. Chi ha avuto quattro, chi tre, chi due collegi, una specie di lotteria affidata al caso e alla pressione dei singoli, ma anche al concetto proprietario di cui sopra. Io, segretario del Nuovo Psi, sono stato inviato in Abruzzo, dove ho incontrato compagni eccezionali, ma sono emiliano e i miei non potevano votarmi. Nessuno parla più di Roberto Barbieri, un dirigente del nostro partito, che aveva il compito di preparare il programma, un senatore, presidente della Commissione bicamerale rifiuti a cui si è voluto anteporre l’ex assessore della Giunta Sassolino e pe questo ha gettato la spugna. In alcune regioni sono stati letteralmente espulsi dalle liste i nostri compagni e io stesso ho chiesto a un professore di entrare nella liste, lui ha accettato e me lo son visto fuori.
3)La struttura periferica del partito dello Sdi, eccettuato qualche caso, mi è parsa anchilosata e chiusa in se stessa, preoccupata dei nuovi arrivi, più che aperta alla nuova disponibilità di unione. C’è stato qualche contrordine compagni, ma che in qualche caso si continuassero a fare riunioni dello Sdi, anziché le riunioni della Costituente. È stato interpretato come un segnale negativo, una sorta di Scostituente anticipata.
Ma la questione politica di fondo è una e gli errori che abbiamo compiuto, a mio giudizio, sono due.
La vera questione, causa del nostra disfatta è che noi abbiamo usato la carta dell’identità mentre in palio c’era il conflitto sul governo del Paese. La partita del governo con questa legge è centrale. Noi disputavamo un’altra gara sulla identità in un campo attiguo, assieme a Bertinotti, alla Santanchè e a Casini, che si è salvato a stento, ma che dovrà tentare di abbinare le alleanze di centro destra sul territorio dove il suo partito è più forte con l’opposizione al governo Berlusconi in Parlamento.
Con questa legge, col premio di maggioranza, è inevitabile che chi non può concorrere per la prima posizione diventa inutile. Il voto all’estero è stato assai più soddisfacente per noi perché si è usato un metodo proporzionale diverso. Quando io sostenevo il sistema tedesco ed ero considerato matto, non si comprendeva che solo quel sistema senza premio di maggioranza avrebbe consentito di tornare alla politica delle identità. Senza premio di maggioranza i piccoli partiti sono avvantaggiati e possono anche superare lo sbarramento, col premio di maggioranza il sistema diventa duale. Senza premio di maggioranza oggi il Popolo delle libertà non sarebbe autosufficiente e non avrebbe potuto sperare di diventarlo il Pd. Il voto utile sarebbe stato proprio quello dato agli altri partiti. Oggi, invece, c’è una larga maggioranza sia alla Camera sia al Senato, pur col premio regionale.
Di questo non abbiamo avuto sufficiente consapevolezza. Anzi, pur non essendo in condizione di fare approvare una legge elettorale, abbiamo sempre affermato che questa era la migliore possibile per noi e che con questa legge bisognava andare al voto. Era meglio, molto meglio aspettare il Vassallum e la bozza Bianco. Si dice: “Ma la crisi non l’abbiamo fatta noi”. E’ vero. Ma qui entriamo nel merito dei due errori.
Il primo, e potrebbe sembrare una contraddizione con quel che ho appena affermato, è costituito da un eccesso di prodismo. Un governo di larghe intese non si poteva fare dopo la mastellata e il voto sulla fiducia negato al Senato. Ma prima sì. All’inizio della legislatura, quando si registrò un sostanziale pareggio, sarebbe stato utile e accettato. E anche dopo la crisi di governo subito rientrata, alla luce della messa in minoranza al Senato di D’Alema sulla politica estera, si poteva ritentare. Noi, o meglio i compagni dello Sdi, siamo sempre stati scudieri di Prodi e lo siamo stati in particolare dopo l’elezione di Veltroni a segretario del Pd. Anzi, abbiamo proclamato che Veltroni era un usurpatore e che quel che a me sembrava un merito, e cioè il voler rompere con la sinistra massimalista, era invece una colpa. E come si poteva pensare all’apparentamento che avrebbe salvato coloro che per mesi hanno additato il possibile salvatore come il peggiore nemico?
Il secondo errore è nell’integralismo socialista. Un aggettivo non ti cambia la vita, non ti migliora la condizione economica, non ti rende più sicuro. Non ti consente di prendere voti. E poi, personalmente, avevo pensato ad una Costituente liberalsocialista, capace di ereditare l’esperienza della Rosa nel pugno e di espanderla. Siamo passati invece ad un integralismo socialista, convinti di aver il supporto del socialismo europeo che non c’è stato. Vedasi le dichiarazioni di alcuni leader che si sono augurati negli ultimi giorni della campagna elettorale la vittoria di Veltroni. Lo so che la vera molla della Costituente è stata la questione socialista posta al congresso dei Ds (senza di quella non credo che Boselli avrebbe lanciato la Costituente). Ma anche su questo abbiamo peccato di indeterminazione. Qualcuno, non Angius, ha ipotizzato una collocazione più a sinistra del Pd. Così abbiamo finito per avere paura dell’eredità craxiana e proprio noi, che siamo stati quelli capaci per primi di andare oltre i confini della sinistra, noi che ci siamo contaminati anche con idee di altri (pensiamo al Lib Lab, al confronto su scuola pubblica e privata, al tema del federalismo e del presidenzialismo) proprio noi abbiamo dato l’impressione di rimpiangere la vecchia sinistra e la sua unità. Se facciamo il verso a un socialismo pre-craxiano è chiaro che finiamo male. Anche perchè non è questa la politica di Blair e neppure di Zapatero.
Cosa fare adesso? Le idee andranno meglio definite cammin facendo. Anche perchè il contesto non è ben definito. Molte cose potranno verificarsi nel Pd e nella sinistra Arcobaleno. Ma anche nel mondo radicale che non credo si lascerà assorbire dal Pd.
Credo, soprattutto, che non dobbiamo fare tre cose: consegnarci al Pd dopo questo risultato elettorale (sarebbe far la fine dei tedeschi che uscivano uno alla volta dal bunker e si arrendevano ai sovietici con le mani in alto). Non dobbiamo unire le nostre macerie a quelle della Sinistra arcobaleno, a meno che, a fronte dell’ipotesi di una Costituente comunista, altri possano aderire all’idea di un cammino comune coi socialisti europei. Non dobbiamo nemmeno pensare di farcela da soli, con un rilancio del nostro integralismo respinto, tesi che potrebbe essere anche suggestiva in occasione delle elezioni europee, senza considerare però la possibilità di uno sbarramento elettorale introdotto da un Parlamento dove gli “antisbarramento” non esistono più.
E poi, dopo le europee, prima o poi ci saranno le politiche e il rigido sistema bipolare difficilmente si sbloccherà. Avremo la possibilità di tornare su questi argomenti. Credo che sia giusto intanto dare atto a Boselli della sensibilità che ha avvertito dimettendosi da coordinatore e annunciando la sua volontà di non presentare la sua candidatura al Congresso. Dovremo presentare al Congresso tesi politiche nuove, un gruppo dirigente fortemente rinnovato e un partito federalista, retto dalle strutture regionali. Ma soprattutto la convinzione che non è più il momento di usare la parola “socialista” come una bacchetta magica. Occorre ben altro.

Mauro Del Bue

L’ADEGUAMENTO VELTRONIANO DICE… SI AL PONTE SULLO STRETTO

Un altro adeguamento del signor Walter Veltroni che dimostra il camaleontismo del personaggio e del partito che lo sostiene: al Nord esprime un deciso no al Ponte sullo Stretto di Messina, in Calabria cambia musica e annuncia la presentazione di un ddl, dal pomposo titolo “scommettere sul Sud”, all’interno del quale, tra altre amenità e luoghi comuni si pone la realizzazione, in tempi rapidi, del corridoio europeo ‘Berlino-Palermo’.

L’orchestra, che fino ad ieri, suonava senza tregua il proprio no ad un ponte inutile e sperperatore di finanziamenti, si trova oggi sbandato ed alla ricerca di note per evitare che la propria musica sia percepita come tentativo di accordi musicali difficili da realizzare, e quindi fortemente stonati. Il cambio repentino della posizione del PD sul Ponte sullo Stretto fatto a Reggio Calabria ha il sapore acre dell’adeguamento elettorale per evitare quella inarrestabile emorragia che la posizione del no a prescindere sta determinando nel Sud del Paese.

Non solo si è affermato che il Ponte si ‘può fare’ perché esso è funzionale alla realizzazione immediata del corridoio Berlino-Palermo, ma lo si è affermato durante una manifestazione aperta dal Ministro Alessandro Bianchi che è diventato famoso per le sue due caleariche esternazioni espresse appena nominato ministro, e passate, si fa per dire, alla storia: il Ponte sullo Stretto non sa da fare come il matrimonio tra Renzo e Lucia, e con la confessione che il modello di riferimento, per l’ex pasionario rettore, è Fidel Castro indicato come valoroso rivoluzionario pacifista da contrapporre al guerrafondaio sanguinario imperialista George Bush.

Tutto, comunque studiato nei minimi particolari, quanto avvenuto a Reggio Calabria. Veltroni opera una inversione di rotta di 360 gradi e coinvolge pienamente il personaggio che giornalisticamente ha tenuto di più il banco contro la realizzazione del Ponte, entrando addirittura in rotta di collisione con quell’AntonioDi Pietro che, però, messo alle strette ha mollato il suo disaccordo provocando la creazione di una situazione paradossale come il possibile annullamento della gara d’appalto che per penale sarebbe costata agli italiani ben 500 milioni di euro (pari a 1000 –diconsi mille- miliardi di lire).

Il Nuovo PSI, che è stato, da sempre, per la realizzazione del Ponte, individuando in esso uno degli elementi che possono far decollare l’Area dello Stretto, saluta positivamente l’inversione veltroniana che, anche se scelta elettoralistica, è pur sempre una scelta che renderà molto difficile determinare un nuovo ”contr’ordine compagni” come ai tempi di Peppone e don Camillo, anche se questo, conoscendo i comunisti, non ci sorprenderebbe per nulla. Per tutto il Popolo della Libertà, la scelta della costruzione del Ponte è, comunque, una scelta strategica non soggetta agli sbalzi dei sondaggi e non decisa per esigenze elettorali.

Per i Socialisti del Nuovo PSI è una scelta che nasce col PSI di Bettino Craxi che ha voluto porre fine, a un interminabile balletto che si trascinava da ben 50 anni, con una legge, per sottrarre la decisione alle giravolte dei vari governi. Nel merito va ribadito che è falso l’assunto di un’opera inutile che non produrrebbe niente di indotto. Sarà un’opera che unirà, anche fisicamente le due sponde, con tutto ciò che questo comporta per superare l’isolamento, abbattere i tempi di percorrenza tra continente e isola, avviare il processo di avvicinamento dell’Italia ai paesi rivieraschi dell’Africa, e creare finalmente reali e consistenti correnti turistiche.

Il cambio di direzione politica del 13 e 14 aprile ci fa ben sperare.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 31.03.2008