ORA BISOGNA REALMENTE FARE FUTURO

La riunione della Direzione nazionale del PdL segna la fine di un ciclo e l’apertura di una nuova fase indipendentemente da quel che potrà ancora accadere nella cronaca dello scontro voluto, ricercato ed attuato da Gianfranco Fini con il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E’ la prima volta, infatti, che la classe dirigente di quel partito appare, come tale, all’opinione pubblica, dimostrando d’essere all’altezza della situazione più di quanto non fosse apparso nello stesso Congresso nazionale dove tutto sembrava predisposto, meccanico e già deciso.

Un salto di qualità che non solo ‘sdogana’ il PdL dall’etichetta di partito di plastica ma dimostra anche, con la diretta sulla riunione, che la democrazia nel Partito è così fortemente presente che non c’è stata preoccupazione nel rendere pubblico lo scontro in atto, e che quanto blaterato da Fini sulla necessità d’avere legittimità di dissenso, e poter dire ciò che voleva, era solo una richiesta strumentale, falsa e ipocrita, e che altrettanto strumentali, false e ipocrite sono state le ‘cosiddette’ motivazioni politiche sbandierate, in particolare quelle sulla Lega, quando da mesi gli argomenti del ‘controcanto’ si erano concentrati su tutt’altri piani.

Ma c’è un altro punto che dimostra la validità della scelta di affrontare a viso aperto l’atteggiamento di Fini che, detto per inciso, stava provocando una fase di forte e continua fibrillazione. Mantenere l’equivoco e sottostare al fuoco di fila di Gianfranco, infatti, stava logorando sensibilmente la leadership del PdL e la capacità d’azione del partito. Era necessario e urgente bloccare quello che sembrava un tentativo di cottura a lento fuoco e isolare, quanto più possibile, una manovra paralizzante.

L’obiettivo è stato centrato, ma non possono escludersi pericolosi colpi di coda, in conseguenza dell’emersione del bluff, sulla reale consistenza degli ‘ammutinati’. Difatti l’aver contato 11 o 12 voti contrari al documento finale, su 172 membri della Direzione (di cui 54 provenienti dall’ex AN), oggettivamente incattivisce ulteriormente il Presidente della Camera le cui affermazioni, sulla lealtà verso il partito e la necessità di realizzare il programma votato dagli elettori, appaiono semplicemente vacue.

Non sembra, infatti, che lo ‘sconfitto’ sia intenzionato a rispettare le scelte della maggioranza, né di rientrare nel ruolo di Presidente della Camera assolvendolo con spirito ‘super partes’ se è vero, come sembra (mancando una smentita in proposito), che abbia minacciato ‘scintille’ in Parlamento. E la cosa è gravissima sia perché espressa dalla terza carica dello Stato, ma anche perché la sinistra, così sollecita a rintuzzare ogni virgola di Silvio Berlusconi, non ha trovato niente da ridire sull’ipotesi di un uso non consono della funzione ricoperta da Gianfranco Fini. Anzi, egli viene osannato in tutti i luoghi, in tutti i laghi, in tutto il mondo, come nuovo idolo.

Ora c’è chi tenta, e va apprezzato lo sforzo, di ricucire gli strappi, ma sarà fatica inutile: troppa acqua è passata sotto i ponti e miserrime sono le motivazioni per poter ottenere una reale marcia indietro. Gianfranco è troppo innamorato del suo io per avere questo coraggio e troppo ansioso di vendette per accettare supinamente la perdita del proprio ‘esercito’ e la fine dei propri disegni. Gli errori commessi fino ad oggi saranno moltiplicati perché l’ira come si sa rende praticamente ciechi e il deragliamento ormai è un dato immodificabile.

Il cammino che ha condotto all’Auditorium della Conciliazione colui che, impropriamente, viene chiamato il co-fondatore del PdL, è iniziato molto tempo fa (com’è testimoniato da scritti inediti di Bettino Craxi, che pubblicheremo quanto prima n.d.r.), ma ha subito una accelerazione dalla fase di costruzione del PdL che lui, come Casini, non intendeva assecondare. ‘E’ stato un errore -ha ripetuto a Berlusconi- essere entrato nel PdL’. Ma è stato anche un errore, diciamo noi, aver pensato di poter liquidare in pochi mesi, per sostituirlo, l’autore del ‘predellino’.

L’attesa, mista alla speranza che il vento che soffiava forte nelle vele issate da Berlusconi cessasse, diventava sempre più insopportabile. Il premier mieteva vittorie su vittorie, e reggeva agli attacchi sistematici di una sinistra incapace di produrre una seria politica e che, per ciò, affidava le proprie sorti al gossip, ai pentiti, alle intercettazioni, alla Magistratura militante. Da questo susseguirsi di successi nasceva il ‘controcanto’, l’atteggiamento da maestrino, fino alla manifestazione di Piazza San Giovanni che platealmente ha voluto disertare, magari perché speranzoso di un ‘flop’ che, con la vicenda dell’esclusione della lista PdL di Roma, poteva compromettere il risultato elettorale.

Ma non è andata così: la Polverini, abbandonata al suo destino, è stata trascinata alla vittoria dal premier. E il premier si è assunto direttamente l’onere della campagna elettorale in tutt’Italia contribuendo a rafforzare le splendide vittorie di Caldoro in Campania, di Scopelliti in Calabria e di Cota in Piemonte. E’ mancata al Sud la Puglia dove, sembra, abbia messo lo zampino anche il nostro eroe. Ma questa ormai è acqua passata.

Adesso bisogna fare futuro non escludendo nessuna opzione per evitare di ripiombare nella guerra di logoramento che di fatto blocca le ipotesi di riforme che il Paese attende da anni, da quelle costituzionali a quelle sulla giustizia, dalle politiche energetiche alle grandi opere, dall’ammodernamento dello Stato alla riforma fiscale. Su quest’altare si possono pagare dei prezzi, ma ne varrà la pena perché si tratta di passare definitivamente dalla prima alla seconda Repubblica.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 26.04.2010

MILLS, LE BOMBE AD OROLOGERIA FANNO SOLO RUMORE

Da quindici anni ormai funziona così. Le bombe usate per la lotta politica esplodono sempre in tempi preordinati, o dopo un flop magari trasformatosi in un vero e proprio boomerang, o alla vigilia di delicati appuntamenti elettorali, o addirittura in ambedue i casi. Nella fattispecie il flop dopo Noemi, e le prossime elezioni europee.

Sempre più incuranti del ridicolo e ben sapendo ch’esso non avrà concretamente alcun effetto pratico, lo schema viene riproposto e viene utilizzato. E, a conti fatti, non potrebbe essere altrimenti. L’assenza infatti di capacità aggregative, la mancanza di respiro politico, la caduta dell’appeal anche nel proprio elettorato, la ‘concorrenza irriconoscente’ del ‘trattorista’ molisano, la lotta interna per ‘gestire’ quel che resta del fu grande partito della sinistra parlamentare spinge, giocoforza, a riproporre schemi già sperimentati nella illusoria speranza che, prima o poi, possano produrre gli effetti desiderati.

Se non altro si riempiono così le loro misere cronache politiche, affidandole al gossip e ai triti e ritriti bollettini giudiziari, e si ha così l’illusione che possa essere ‘la volta buona’ per distruggere il nemico temporale quello che oggi la sinistra considera l’ostacolo alla ‘presa del potere’, e che viene individuato in Silvio Berlusconi. Ma anche su questo versante, pur sapendo che la storia si ripete solo in forma di farsa, i nemici della sinistra sono stati, di volta in volta, individuati in De Gasperi, Moro, Fanfani, Andreotti e Bettino Craxi, che poi vengono sistematicamente ‘riabilitati’ dopo la loro morte. Detto questo, però, la sentenza di Milano non può restare terreno di scorribande giustizialiste che puntano ad un uso distorto della stessa, ma deve necessariamente essere studiata per farne emergere le incongruenze che hanno spinto molti commentatori a parlare di sentenza scandalosa.

Il primo problema che emerge, in tutta la costruzione delle motivazioni, è rappresentato da fatto che non è stata provata la ‘dazione’ (brutto linguaggio dipietresco) dei 600 mila dollari all’avvocato Mills, e che, quindi, è assurda la condanna senza il ‘corpo del reato’, cioè senza la prova del misfatto che viene ricondotto al ‘convincimento’ dei giudici. Ma col convincimento si possono avviare indagini e forse decidere rinvii a giudizio, ma non si possono emettere sentenze di colpevolezza che necessitano sempre di prove certe e inoppugnabili.

Come secondo problema bisogna fare un passo indietro ricordando che l’accusa a Mills è di ‘aver detto il falso’ (per proteggere Berlusconi) in due procedimenti giudiziari (Guardia di Finanza 20.11.1997 e All Iberian 12.12.98 ), e aggiundendo che, per evitare la prescrizione il Pm De Pasquale riuscì a spostare la data del ‘reato’ al 28.2.2000, allungando il periodo di prescrizione di 1 anno e due mesi che, attualmente ha tenuto in piedi il procedimento, ma che sarà letteralmente insufficiente nel prosieguo del procedimento.

Ma allora, perché la sentenza contro Mills se è costruita su presupposti facilmente ribaltabili dai successivi gradi di giudizio? Perché questa voglia di arrivare ad una sentenza temporale destinata a sciogliersi come neve al sole? La verità, riallaciandosi a quanto detto all’inizio, è che si punta di più sull’effetto politico dell’annuncio di una condanna che sulla reale condanna degli eventuali rei. E sull’uso politico di una sentenza, anche se evanescente, l’armata Brancaleone ha una grande e collaudata esperienza.

Ma, per l’ennesima volta, va ricordato che non si costruisce un pensiero politico sui gossip e sulle sentenze di primo grado emesse tra l’altro da un giudice, la Gandus, ricusata da uno dei ‘rei’ per le simpatie a sinistra e le dichiarazioni contro il premier. Questo percorso avvantaggia, semmai, solo gli interpreti del sentimento da tricoteuses. Franceschini e & continuano a far scorrere l’acqua nel mulino di Di Pietro, mentre le bombe ad orologeria fanno solo rumore.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria, 20.5.2009

LA STORIA DEL SOLDATO GIAPPONESE NON CI APPARTIENE

Con il Congresso costitutivo del PdL , si chiude un ciclo, si formalizza la fine di una fase e si dà avvio a un nuovo capitolo della lunga storia riformista italiana. Non cesseranno di esistere le diverse sensibilità che, tra l’altro, non si neutralizzano per decreto, e continueranno a esistere involucri organizzativi che sono destinati a svuotarsi totalmente, nel corso di pochi anni: il tempo della metabolizzazione concreta del processo di amalgama organizzativo, essendo già più che realizzata l’amalgama politica.

Disperarsi, come fanno alcuni socialisti, per la possibile liquidazione di simboli e vessilli, non serve a niente: i processi politici vanno avanti comunque indipendentemente dalle singole volontà. La nostra storia, la storia dei socialisti autonomisti, dei socialisti che si rifanno a Turati, Saragat, Nenni e Craxi , è ormai storia e nessuno potrà mai cancellarla. Anche altre forze, come il Nuovo PSI, rinunceranno ai propri vessilli ed ai propri simboli. Esse avranno sicuramente una storia meno antica ma non per questo la loro è una storia meno vissuta e meno sentita. Sull’altare di un progetto comune di rinnovamento, di riforma e di modernizzazione del Paese ognuno ha dovuto, deve, sacrificare qualcosa e rinunciare a un brandello del proprio abito.

Si è scelto, infatti, di liberarsi dei simboli individuali, parziali e partigiani, rifuggendo dal condizionamento delle ideologie, per privilegiare i comuni denominatori che hanno aiutato il popolo italiano a rifiutare la ‘falsa rivoluzione’ di ‘mani pulite’ stroncando sul nascere la ‘gioiosa macchina da guerra’ messa in campo, dai ‘golpisti’, dopo la decapitazione dei partiti moderati (DC, PSI, PRI, PSDI, PLI) che avevano governato l’Italia, la sua rinascita e il suo sviluppo fino a farne la settima potenza mondiale. E già allora, sul terreno dei contenuti, si avviava una convergenza con la destra parlamentare dell’MSI. Craxi, che puntava a superare l’ingessatura del sistema, rendendo spendibile una forza indispensabile alla trasformazione politica del Paese, dimostrava la propria grande lungimiranza.

Sorprendersi oggi, ed attardarsi in inutili dibattiti sulle ‘contraddizioni’ delle alleanze non omogenee (?) ripresenta la storia del soldato giapponese che non si era accorto che il mondo aveva imboccato un’altra strada. Chi invece percepisce le novità storiche dello scenario politico sceglie, non l’atteggiamento da reduce e combattente, ma quello concreto e fattivo di sostegno ad un processo impegnativo, realizzato su valori di fondo e, di conseguenza, su obiettivi che quei valori debbono esaltare.

Riformismo, laicismo, liberismo e garantismo sono le cartine di tornasole di questa scelta che deve svilupparsi non ignorando la crisi che sta sconvolgendo tutto l’Occidente , le grandi migrazioni extracomunitarie e non, il terrorismo e la instabilità in diverse zone del pianeta, e lo stesso provincialismo di settori della politica italiana. Su detti argomenti l’amalgama moderata e riformista del Governo Berlusconi, voluto dagli italiani 10 mesi fa (e che ancor oggi ha il gradimento della stragrande maggioranza della popolazione), sta operando con grande e apprezzata determinazione. Il Governo, oltre al suo leader, ha ministri di levatura incredibile che sono vanto per l’intera comunità italiana.

Le misure anticrisi hanno visto il nostro Paese anticipare un percorso cui si sono poi accodati tutti: aiuto alle imprese in crisi, sostegno ai redditi bassi, più efficienti e corposi ammortizzatori sociali ai lavoratori licenziati, avvio o rilancio delle grandi opere infrastrutturali (Ponte,Tav, Mose, autostrade), prime ‘pietre’ di una nuova fase energetica del Paese, e da ultimo il Piano case; la forte migrazione, sostanzialmente non negativa per il Paese, ha dovuto essere controllata con misure più adeguate a gestire i flussi e atte a liquidare penetrazione e formazione di sacche di criminalità che hanno, ultimamente, allarmato l’opinione pubblica; e in politica estera il protagonismo dell’Italia ha evitato il proprio isolamento e ha aiutato il ruolo di mediazione in difesa della pace e per il controllo e la soluzione dei focolai esistenti. Su ogni provvedimento si è dovuto, purtroppo, assistere all’abbaiare alla luna di una opposizione sempre più alla ricerca di autori.

Il Nuovo PSI è parte integrante di questa politica e di questo processo. Lo vuole vivere non da spettatore ma da protagonista, nei limiti della propria forza, certamente, ma con la voglia di mettere a disposizione della coalizione, l’esperienza, la passione e la competenza dei propri quadri, almeno quelli rimasti, avendo il grosso dei socialisti, già da tempo, fatto questa scelta.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria, 26.3.2009

GIANFRANCO FINI, DEMOCRATICO AFFIDABILE?

Anche se la telenovela di un Fini uomo di sinistra è diventata veramente stucchevole, essa si presta ad alcune considerazioni sulla doppiezza dei post e catto-comunisti, e merita qualche riflessione. E’ un’esigenza che sentono, soprattutto, i socialisti quelli, per intenderci, che hanno rifiutato l’egemonia di lor signori, e sono stati ripetutamente tacciati di ‘tradimento’ perché ad un’alleanza ‘normale’, a sinistra, hanno preferito fare una scelta di campo considerata ‘scandalosa’.

Ricordano un po’ tutti, ma soprattutto gli interessati, che il liet-motiv della polemica era rappresentato dal disgusto per un’alleanza con gli ‘eredi del fascismo’ rappresentati dai vecchi ma anche dai nuovi dirigenti dell’ex MSI. In particolare veniva attaccato proprio Fini, e a nulla serviva dire che, dopo Fiuggi essi si erano ‘mondati’ del peccato originale rappresentato dall’essere uomini provenienti da una ideologia sconfitta dalla storia, ed erano ormai una forza genuinamente riformista e sicuramente democratica.

Valevano, nel ragionamento dei socialisti craxiani, le scelte garantiste e riformiste decise da AN assieme all’intera coalizione, prima, della Casa e, dopo, del Popolo delle Libertà. Per anni, invece, gli ex comunisti hanno coperto di contumelie ed indicato al pubblico ludibrio quanti risultavano alleati di Silvio Berlusconi e di Gianfranco Fini.

Ma son bastate alcune dichiarazioni del Presidente della Camera per cambiare registro e musica. Non le dichiarazioni tipo: ‘le leggi razziali sono state un’ignominia’, o addirittura ‘il fascismo è stato il male assoluto’. No, non queste, ma quelle più, terra terra, tipo: – no al cesarismo; – no all’abusato ricorso ai decreti legge; – no alla tassa agli immigrati; – no all’obbligo per i medici a denunciare i clandestini curati; – si al voto agli immigrati; – no al voto delegato ai capigruppo; ed altre simili. Non, quindi, le dichiarazioni che dimostravano la rottura col proprio passato ideologico, ma le dichiarazioni che potevano essere interpretate come una presa di distanza dal suo maggiore alleato, cioè il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
E allora Fini diventa un uomo politico con una solida e condivisibile cultura democratica di base, addirittura un democratico di cui ci si può fidare, né più e né meno di un Veltroni prima e di un Franceschini dopo. Anche la proposta, avanzata scherzando, che lo vedeva come novello Segretario del PD, s’inquadra in questo corteggiamento, in questo improvviso innamoramento, che liquida in un colpo solo tutte le frasi fatte sull’uomo nero, il fascista impenitente, l’erede degli stragisti, l’essere immondo da cui tenersi alla larga.

Ebbene: o hanno visto giusto, e in anticipo, i socialisti riformisti e craxiani del Nuovo PSI accettando Fini come alleato, o si pensa di forzare alcune posizioni per puntare, illusoriamente, allo scardinamento della solida alleanza che sta portando verso la costruzione del PdL. Comunque tutte e due le ipotesi sono valide perché se i socialisti avevano visto giusto, aldilà di un’inutile e non richiesta certificazione dell’attuale sinistra, i catto-comunisti strumentalmente pensano di creare problemi ad una coalizione realizzata su dati valoriali e non elettorali.

Si ripete la vecchia storia del Bossi ‘costola della sinistra’. Ma è un giochetto senza respiro politico basato solo su qualche accarezzamento che risulta offensivo dell’intelligenza dell’interessato. Ogni discesa, è opportuno ricordarlo, è anche una salita. Sarà difficile dire domani che Fini è invece un uomo nero.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria, 18.3.2009

Film su Craxi Sabato 3 Gennaio

Sabato 3 gennaio in seconda serata ore 22.30 su Canale 5 viene trasmesso il Film su Bettino Craxi “La mia vita è stata una corsa” con la regia di Paolo Pizzolante.

Una vita vissuta di corsa, fatta di scatti d’orgoglio («non prendiamo lezioni dai
comunisti»), di responsabilità («se perdo il referendum sulla Scala Mobile mi dimetto
un minuto dopo»), d’onore (Sigonella), di giustizia (aiuto al dissenso internazionale).
Lasciando ai documenti, senza filtri, illustrare la rivoluzione giudiziaria del ’92, le ultime
scene del film accendono il faro sull’esilio ad Hammamet, dal 1994 al 2000: «Io la
considero la morte. Perché per me, la mia libertà equivale alla mia vita».

Approfitto per formulare a tutti i migliori auguri di buon anno.

Giovanni Bertoldi – Segretario Nuovo PSI Emilia Romagna

Tavola Rotonda del Nord: un progetto che dobbiamo fare insieme

Credo che si debba cambiare anche il sistema di preparare questi convegni; non più un’oligarchia ristretta, che decide spesso disconnessa dalla realtà, ma delle tesi da sviluppare aperte al contributo della rete.
Vi chiedo quindi di mandarmi tutti i suggerimenti che ritenete opportuni, perchè si possa riempire di contenuti il ragionamento politico che i Socialisti vogliono fare.
Nel frattempo sono andato a riascoltare alcuni contributi del convegno che la Direziona Nazionale (vera) del PSI (vero) fece a Brescia nel 1990. Per chi volesse qui c’è il link.
Aspetto il vostro contributo.

Grazie
Franco Spedale

Contributi del Convegno 1990

Puoi lasciare il tuo suggerimento come commento a questo post oppure compilare la form:

Una grande manifestazione politica dei Socialisti del Nord

È di questi giorni la notizia del Congresso, previsto per Gennaio-febbraio 2009, di “fondazione” della PDL.
Una circolare a firma del coordinatore di F.I. Verdini e del reggente di A.N. La Russa, apparso anche nei giornali, tracciano il percorso di un processo che sembra tutto interno ai due principali raggruppamenti.
La somma dei due partiti insomma che, riprendendo logiche ormai a noi Socialisti ben conosciute, considerano tutto il mondo ruotare attorno a loro e di utilizzare, a seconda delle necessità io piccoli raggruppamenti di turno, Nuovo PSI compreso.
Un dibattito, che seppur apparentemente non ci può interessare, in realtà ci obbliga a svolgere alcune riflessioni.
La prima riflessione riguarda al ruolo che una componente laico-liberal Socialista potrebbe e può svolgere all’interno della PDL, ossia senza i “Socialisti” il PDL cosa rappresenta?
Io sono convinto che la nostra area sia elemento indispensabile per la formazione di un nuovo soggetto politico, moderato, innovatore e aperto alle nuove problematiche. E non lo dico da Socialista convinto quale sono sempre stato, lo dico perché oggettivamente manca oggi in Italia un’area che si riconduca alla politica riformista del Socialismo liberale.
È conseguenza evidente che senza il Socialismo liberale il PDL è assolutamente assimilabile al PDL senza la L cioè il PD, un’aggregazione che specularmente si trova ad essere conservatrice.
La seconda riflessione si basa sul fatto se possiamo o meno incidere sulle regole del gioco.
È altrettanto evidente che la risposta è NO.
Del resto un ceto politico che si autocelebra e autonomia non può far altro che stringere il cerchio invece che allargarlo poiché se il meccanismo di confronto si dovesse basare sulle capacità politiche, credo, senza esagerare che il 99% degli attuali dirigenti dei maggiori Partiti Politici si troverebbero immediatamente disoccupati.
E qui si pone per noi il vero problema.
Se siamo convinti, come lo siamo che non vi siano neppure le minime condizioni per intraprendere un confronto con il PD, dobbiamo allora capire come diventare elementi necessari per la costruzione del VERO PDL.
Se si modificherà la legge al Parlamento Europeo, se toglieranno cioè le preferenze e metteranno lo sbarramento, se le liste alle Provinciali saranno composte da AN-FI (PDL) da una parte e i partiti minori dall’altra nel ruolo degli utili idioti se si continuerà il processo di mortificazione di un confronto culturale (bene Gasparri!) come si è sempre continuato noi Socialisti Liberali, abbiamo il dovere di imporci con le idee.
Dobbiamo essere in grado di declinare capillarmente il significato dell’essere Socialisti-Liberali, di essere riformisti di essere innovatori.
Sono molto preoccupato del fatto che alle prossime elezioni Provinciali, laddove saremo determinanti Verdini e La Russa verranno a chiedere la presenza delle liste del Nuovo PSI.
Perché se questo dovesse avvenire senza che noi siamo stati in grado di costruire un progetto politico del dopo Berlusconi, verremo corteggiati, qualcuno di noi si sentirà gratificato per essere stato coinvolto, ma il giorno dopo saremo nella disperazione totale.
A me il PDL così come si sta formando non mi attira molto, almeno per il momento.
Credo fortemente nel processo federativo che possa veraci coinvolti, ma anche per avere il coraggio di proporci come interlocutori dobbiamo essere in grado di dimostrare di non essere dei questuanti della Politica ma viceversa di avere un progetto.
Una grande manifestazione dell’Italia Settentrionale che affronti con coraggio e prospettiva il tema del Federalismo Fiscale, della riforma del Lavoro, del miglioramento delle Infrastrutture, del riordino del Sistema Sanitario, che dia il senso di ciò che significa essere Socialisti oggi nell’Italia Settentrionale è quello che mi sono proposto di fare entro la fine dell’anno e che propongo a tutto il Partito Nazionale, affinché ripartendo con delle tesi Politiche dal Nord si possa tracciare un cammino che non sia solo elettorale ma che abbia il coraggio di scommettere sulla Politica.
Questo sistema non può reggere ancora molto, la politica ha delle sue regole e queste prima o poi ritornano prepotentemente, perché nulla può essere lasciato al caso, né tantomeno all’improvvisazione.
Solo riuscendo a spostare il confronto sulla politica allora potremmo dire di essere indispensabili.
Diversamente il nostro sarà un gioco al massacro, fatto di tante delusioni e di poche soddisfazioni.

Il percorso costituente del Popolo della Liberta’

L’accelerazione data alla semplificazione del quadro politico nazionale con le elezioni di aprile, impone alle forze politiche moderate di dare seguito alla costituzione di quel nuovo partito noto come “Popolo delle Liberta’”. In proposito, pero’, va fatta una considerazione preliminare, che sembra di per se’ ovvia, ma che costituisce elemento di evidente originalita’ : un partito che non c’e’, o almeno non c’e’ ancora nella sua forma giuridica , aggrega, vince, convince, propone, governa un Paese che vive una delle crisi piu’ difficili dal secondo dopo guerra ad oggi . Difronte a questo fenomeno nuovo le forze costituenti dovranno aprire una seria riflessione che investe, a mio giudizio, tre distinti profili: 1) il modello di Partito che si vuole costruire,2) il sistema politico nel quale esso dovra’ essere collocato e dovra’ operare, 3) quali le forze che dovranno interpretare questo nuovo corso . La risposta a questi tre quesiti presuppone pero’ la risposta ad una domanda preliminare : quale modello di democrazia vogliono veramente gli italiani? quello Parlamentare o quello presidenziale? Perche’ al di fuori di questi due modelli non ne esistono altri. Anzi la anomalia tutta italiana di questo lungo periodo di transizione politica che va dalla fine della prima Repubblica, al tramonto della cosiddetta seconda repubblica, e’ stata proprio quella di avere ipotizzato ed applicato un sistema ibrido, fatto di coalizioni onnicomprensive, costituite da formazioni disomogenee per estrazione culturale ed identitaria , di una elevata conflittualita’ all’interno delle stesse coalizioni, e con l’indicazione del premier per finalita’ puramente elettorali , senza che all’eletto, venissero poi effettivamente attribuiti i poteri previsti nei sistemi presidenziali . La risposta a questo quesito la si trova nella Costituzione, la quale ci impone di seguire il modello della democrazia parlamentare imperniato sul principio della centralita’ del Parlamento . Di qui la necessita’ e non solo la opportunita’ di costruire un partito , strutturato capillarmente sul territorio, che sia capace di catalizzare il consenso intorno a ragioni ideali e politiche, omogenee e condivise . Con il voto del 13 aprile scorso il popolo italiano ha dato una indicazione chiara: ha scelto il modello delle grandi democrazie europee, costituito appunto da due formazioni antagoniste attorno alle quali si polarizza la stragrande maggioranza del consenso popolare. Cosi’ il PDL ed il PD hanno raccolto, da soli, ben oltre il 70 per cento dei voti, mentre sono restate escluse dal Parlamento -ad esempio- le formazioni della sinistra radicale e ambientalista oltre che quella riformista moderata che ruotava intorno alla cd. Costituente socialista di Boselli, perche’ esse non hanno saputo evidentemente interpretare le esigenze di tutele reclamate da larghe fasce della popolazione, peraltro le meno garantite e le piu’ bisognose. Sotto tale profilo non puo’ passare inosservato, perche’ il dato e’ di per se’ eclatante, che alle comunali di Roma l’on. Alemanno ha raccolto nei quartieri popolari tradizionalmente di sinistra, piu’ voti del suo antagonista del PD. – Ma il PDL come dicevo oggi non e’ ancora un Partito e cio’ costituisce elemento di precarieta’, se non di confusione, nella attuale situazione politica italiana. Di fronte ad una crisi che e’ diventata crisi di sistema e che attraversa le strutture politiche, sociali ed imprenditoriali del Paese ormai da troppo tempo, non vi e’ altra strada, nell’immediato, che quella di accelerare il percorso costituente di un partito di massa che sia capace di assicurare governabilita’, ricambio della classe dirigente,concentrazione su piattaforme programmatiche omogenee e di ridare autorevolezza e stabilita’ al Parlamento. Perche’ soltanto un parlamento autorevole potra’ avviare la necessaria ed ineludibile stagione di riforme per rendere piu’ moderno, piu’ efficiente e piu’ competitivo il Paese. – Per venire al terzo ed ultimo profilo, quello del CHI dovranno essere gli interpreti della nuova formazione, e’ mia convinzione che elemento imprescindibile debba essere la capacita’ del nuovo soggetto politico di interpretare le istanze, le sensibilita’, le ragioni ideali, se si vuole anche le diversita’ di tutte le componenti ,nell’ambito di una organizzazione democratica. Un Partito cioe’ che sia capace di rimettere la Politica al centro del sistema, di confrontarsi sui programmi , di giocare il suo ruolo sui concetti di ricerca , di innovazione, di meritocrazia, di solidarieta’, di pari opportunita’, di equita’ sociale, di Giustizia. “ RINNOVARSI O PERIRE “ diceva Pietro Nenni. Ed oggi rinnovarsi significa dar voce ad un Paese che vuole riprendere il cammino della crescita adeguando i suoi strumenti alle nuove sfide globali di questo secolo, nell’ottica della integrazione, della tolleranza, della Pace , della sicurezza. E per far questo occorrera’ costruire una organizzazione capace, sin dall’inizio, di aggregare tutte le componenti politiche moderate, di estrazione laica e cattolica, le pluralita’ culturali, nel rispetto delle singole identita’, nell’ambito di quel partito network che Berlusconi immagina come centro di produzione politico culturale, un po’ sul modello dei partiti americani. Con il voto di aprile gli italiani hanno chiesto chiarezza. Linearita’. Rigore. Hanno dato fiducia alle formazioni ed ai partiti collegati all’attuale Premier, affinche’ superate le conflittualita’ e le contrapposizioni, si governi nella coerenza e nella condivisione dei programmi. In una recente intervista l’on. Capezzone, portavoce di Forza Italia, ha detto: “Nessuno dovra’sentirsi ospite in questa nuova casa” . Prendo come buon auspicio questa dichiarazione solenne. Se sara’ vero lo vedremo a breve. Qualora non lo fosse ciascuno di noi riprendera’ – in autonomia- il suo percorso, forte delle proprie idee. Ma in questa denegata ipotesi si sara’ persa forse l’ultima occasione .
Oreste Campopiano segretario reg.le N.PSI

DEL TURCO, ASSURDO CHE NESSUNO RISPONDA DEGLI ERRORI

Prima di quanto era possibile pensare l’inchiesta sull’arresto di Del Turco e degli altri indagati, presentata in pompa magna, e con tanto di conferenza stampa da parte del PG Trifuoggi, si sta sfaldando inesorabilmente, dimostrando quanto raffazzonata, forzata e costruita solo sulla ‘fiducia’ che, incredibilmente, è stata accordata ad un personaggio, come si legge sulla stampa, non certamente adamantino, qual’è l’imprenditore Vincenzo Angelini.

L’inchiesta si sta, quindi, rivelando un flop gigantesco dove, nella migliore delle ipotesi, si sono presi fischi per fiaschi e da questa confusione è dipeso poi tutto il resto. Le tre lussuose case di Del Turco, comprate con i ‘proventi della corruttela’, alla fine si sono rivelate una sola casa, di mq. 76, comprata non ai Parioli ma alla Garbatella, con un acconto di 300.000 euro (provenienti dalla vendita di tre quadri di Schifano) e da un mutuo di altri 200.000 euro acceso dal figlio di Del Turco, della durata di 20 anni.

Dei 6 milioni di tangenti non si trova alcuna traccia, né nei conti correnti, né nelle cassette di sicurezza, né si trovano conti correnti esteri nella disponibilità dell’ex Governatore dell’Abruzzo. Niente di niente. Semplicemente volatilizzati. E il signor Angelini che, notoriamente, da vent’anni, usava il registratore per ‘immortalare’ ogni sua conversazione, perché non ha usato detto sistema per ‘incastrare’ Ottaviano Del Turco? Ma soprattutto, perché, prima degli arresti, non si è sentito il bisogno di sentire gli indagati a loro discolpa? Sembra che ‘l’imperativo categorico’ era quello di procedere, e si è proceduto, in barba ad ogni necessaria cautela come sarebbe stato necessario trattandosi di provvedimenti gravi con conseguenze altrettanto gravi. Si è avviato un percorso che ha messo in discussione la libertà altrui, e questo, in un Paese, che si sente culla del diritto, è semplicemente intollerabile.

Lo scenario che si presenterà adesso avrà sicuramente due risvolti. Il primo è che i protagonisti della vicenda non saranno così coraggiosi nell’ammettere che hanno sbagliato, ma continueranno a disconoscerlo e, come per la vicenda dei fratellini di Gravina, continueranno a crogiolarsi nelle proprie assurde teorie, dimenticando che dai propri atti dipenderà l’immediata libertà di esseri umani assurdamente dietro le sbarre di un carcere italiano. Meno male che ci sono altri livelli che potranno decidere di porre fine ad una carcerazione inutile e ingiusta come si sta palesando dopo gli ultimi sviluppi.

Il secondo risvolto riapre la vecchia questione della responsabilità dei magistrati, che già il referendum radicale del 1987, sostenuto da Bettino Craxi, lo aveva preteso con una maggioranza di oltre l’80%. Ma quel pronunciamento è, purtroppo, rimasto lettera morta. Deve riaprirsi il dibattito sull’argomento e si deve, sollecitamente, passare a decisioni concrete così come sta avvenendo per altri argomenti riguardanti la riforma della giustizia.

E’ urgente e necessario che ciò avvenga. Non lo chiede solo il Nuovo PSI, ma lo reclama a gran voce la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, partendo da un assunto chiaro e netto: se sbaglia il medico, l’ingegnere, il funzionario, il politico e chiunque altro operi nella nostra società, di sicuro è chiamato a risponderne. Se sbaglia, invece, il magistrato, per la regola assurda dell’irresponsabilità dei propri atti, non risponde proprio di nulla. Ed è anche questo che ne fa una casta privilegiata e fortemente protesa a difendere i propri privilegi. Fin tanto che in questo Paese, culla del diritto (?), ci sono aree di privilegio e irresponsabilità, salvo quella del Presidente della Repubblica, non si potrà certamente parlare di Paese fondato sullo stato di diritto.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 21.7.2008

DEL TURCO, IL TEMPO E’ SEMPRE GALANTUOMO

L’arresto di Ottaviano Del Turco è l’ennesima vicenda choc che ripropone l’urgenza di una profonda riforma del sistema giudiziario italiano. Ancora una volta tintinnano le manette e solo fra alcuni anni sapremo se legittimamente o meno. Intanto un cittadino senza, ancora, un giudizio finisce dietro le sbarre, e le prime pagine dei giornali, com’è naturale visto il personaggio, sono piene di titoloni. La vicenda, però, se non si è come Di Pietro, offre spunti per una riflessione che va aldilà degli schieramenti l’un contro l’altro armati.

E vediamo perché, partendo da una semplice domanda che merita una altrettanto semplicissima risposta. Perché è stato arrestato Ottaviano Del Turco? Qual’era la necessità che ha spinto pm e gip a privarlo della libertà? Francamente sembra impossibile rispondere a queste semplici domande. Ma se rifiutiamo la lettura del sen. Francesco Cossiga che sostiene essere ‘un avviso a Veltroni e a sua moglie’, bisogna rifarsi a quello che pensa la gente comune in questo nostro martoriato Paese, e cioè al solito trito e ritrito protagonismo di alcuni magistrati.

L’arresto in Italia è previsto solo, e sottolineo solo , in fragranza di reato ex art. 380 ccp, e, negli altri casi, se c’è pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove e pericolosità sociale. Tre ipotesi assolutamente inesistenti nel caso specifico: niente fuga (se avesse dovuto farlo lo avrebbe fatto da tempo dato che le indagini sono in corso da parecchio), impossibile inquinare le prove (essendo l’inquisito sotto i riflettori delle indagini), e niente pericolosità sociale (non si tratta chiaramente di un mafioso o un camorrista). Ma intanto è stato lo stesso sbattuto dietro le sbarre di un carcere. Non ha ragione Silvio Berlusconi quando dice che ‘bisogna riformare la giustizia ad imis, cioè in modo radicale’?

Ne sono convinti un po’ tutti, ma l’atteggiamento ostile contro il premier è tale che dopo aver criticato aspramente l’atteggiamento di Berlusconi teso a sfruttare tutte le palle al balzo, si afferma, nei fatti, che l’arresto era inutile ed eccessivo. Illuminante in questa direzione quanto sentito in una nota trasmissione radiofonica, ieri sera, dove le arrampicate sugli specchi sono state una operazione incredibilmente faticosa. Dissentire in modo netto da Silvio Berlusconi, ma non potergli dar torto nei fatti è l’ultima trovata dei commentatori di sinistra.

Nella vicenda, comunque, ci rifiutiamo di schierarci pro o contro l’innocenza di Del Turco. Non è questo in discussione, quanto l’uso spregiudicato che si fa dei poteri giudiziari. Ottaviano Del Turco, come ricordano i socialisti, fu il ‘liquidatore’ del vecchio PSI craxiano, il suo ‘necroforo’ ufficiale. La ‘liquidazione’ fu condotta, assieme a Giorgio Benvenuto, con tale acrimonia e tale veemenza (‘non mi stupisco affatto dell’esistenza del partito degli affari nel PSI’ disse) che mise in difficoltà molti militanti sulla possibile colpevolezza di Bettino Craxi. Ma il tempo è stato galantuomo, e le mascalzonate si sono rivelate per quello che erano effettivamente.

La vicenda offre, comunque, l’occasione per una considerazione. Se Del Turco, oggi, dovesse risultare colpevole, le parole pronunciate ieri contro Craxi, erano solo un meschino personale paravento; se, al contrario, dovesse, come ci auguriamo, risultare innocente, credo che finalmente capirà lo stato d’animo di chi, come Bettino Craxi, subiva la gogna mediatica dell’allora vincente pool di Milano, e doveva ‘sopportare’ le insinuazioni di un proprio ingrato compagno di partito.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 15.7.2008

Razeti sul dibattito di Montecatini

Il dibattito di Montecatini mi è parso fatto di frasi iniziate e non finite…..per non entrare nel merito dei temi e opportunisticamente non chiudere nessuna porta e poter contenere le posizioni delle diverse personalizzazioni.
Leggendo l’intervista del Segretario della Liguria del PS ( Il secolo XIX del 6/7/2008 pag. 2 )
[………..Sta dicendo che il Ps è più vicino al pensiero D’Alemiano? – «Esattamente. Se la sinistra vuole riscattarsi, fin dalle Europee del prossimo anno, va rilanciata la politica delle alleanze, con un progetto autenticamente progressista. Non può essere ovviamente riproposto il logoro modello dell’Unione» ]…pare capire che la posizione sia a sinistra comunque a “prescindere”.
La riproposizione di una linea frontista ormai sconfitta dalla storia:
Il popolo Socialista è di sinistra per le cose che propone con coraggio e responsabilità e non per dove si vanno a sedere gli eletti, magari riproponendo anche temi minoritari che sembrano scopiazzati dalle pagine di Guareschi per crearsi un po’ di visibilità mediatica:
Sul nostro versante riscontro invece un crescente consenso, non solo per la nostra posizione politica che ci ha permesso di avere due deputati ma, verso quelle iniziative che ci consentono di essere un partito della gente e non esclusivamente del palazzo.
Il consenso, come sapete, ahinoi non si ottiene solo con qualche apparizione in TV o perché vent’anni fa si era craxiani “doc”ma da una capillare presenza a fianco dei cittadini, ascoltandoli e possibilmente aiutandoli anche direttamente quando le istituzioni sono assenti se non proprio contrarie.
Sicuramente queste iniziative costituiscono una scommessa difficile la quale può essere vinta facilmente se sapremo proporre, come ne sono certo, serietà e spirito di servizio.
Forse, adottando un po’ di movimentismo, dovremo saper proporre coraggiosamente con forza tutte quelle soluzioni che ammodernino nel vero senso del termine il nostro paese a partire dalle infrastrutture, dalla formazione, dai trasporti pubblici, ……., e non ultimo dall’ammodernamento della Pubblica Amministrazione.
Ad esempio, anche per far fronte ad una pesante situazione economica internazionale che si proporrà nei prossimi due anni, sarà opportuno proporre iniziative che incentivino concretamente i cittadini a riprendere e rivalutare, con una nuova cultura e meno vincoli e oneri da parte della PP. AA., quelle attività che pur gravose, possono far coniugare facilmente: la salvaguardia del territorio; un adeguato riscontro economico; produzione di beni primari sempre più necessari.
Piergiorgio Razeti

Edizione 141 del 09-07-2008

Il successo di un congresso che non si doveva fare

Resurrezione socialista

di Biagio Marzo

Rino Formica, che è uno che non le manda a dire, aveva affermato ( il Riformista), da par suo, che non

era proprio il caso che si svolgesse il Congresso socialista. Probabilmente, per il fatto che i risultati

elettorali non avevano permesso al Ps di eleggere un gruppo parlamentare e visto che lo svolgimento

delle assise locali non avevano alimentato un dibattito politico. Anzi. Vero è che su parecchie cose

socialiste, ha ragione da vendere, epperò, è stato smentito in pieno, perché, a Montecatini, i socialisti

hanno dato il meglio di sé. Quello che hanno potuto fare e dare nelle condizioni in cui si trovano.

L’handicap di essere fuori dal Parlamento non è una cosa di poco conto. Tuttavia, è venuta fuori in modo

preponderante la voglia di lottare per ritornare sulla scena politica come attori, lungo la tradizione del

socialismo italiano. Si intende in modo nuovo, rompendo i vecchi schemi: non più lotta parlamentare,

ma lotta al fianco del cittadino in carne e ossa. Il che non significa che il Ps non abbia alcune “idee

forza” sul piano del programma di governo, con le quali aprire un confronto tanto con maggioranza

quanto con il resto dell’opposizione. Partito di governo e di movimento, per l’appunto. Per supplire

all’assenza dalle Camere, il Ps sceglie di gettarsi nell’esperienza movimentista, senza allontanarsi

dall’essere sinistra di governo.

Il tutto in chiave autonomista, garibaldina e corsara. Autonomista non come sinonimo di autosufficienza

che porta all’annullamento politico, ma alla libertà di essere fuori dai giochi delle due coalizioni in

campo, spinte artatamente per interessi di bottega al bipartitismo. Il quale è stato issato come bandiera

di combattimento da Berlusconi e Veltroni, perché entrambi, prendendo a pretesto il bene della

democrazia parlamentare e del Paese in particolare, hanno inneggiato al voto utile; insomma, al voto a

una delle due coalizioni. Ragion per cui, hanno svolto la campagna elettorale sull’onda della

semplificazione del sistema partitico, raccogliendo, immeritatamente, una messe di voti a scapito dei

partiti medi e piccoli, anziché approvare una legge elettorale meno oligarchica e partitocratica di quella

in vigore e senza svolgere minimamente un ragionamento politico secondo cui la Grande riforma è la

madre del rinnovamento istituzionale e politico italiano.

Garibaldina nel senso che i “Mille” socialisti rimasti in campo sono forza dinamica, pronti a tutto per

conquistare la terra perduta e per riscattarsi dall’onta delle sconfitte e delle offese subite. Consapevoli,

peraltro, che la loro storia è più grande dello 0,98% acquisito nell’ultima tornata elettorale. Corsara sta

per libertà di alleanze negli enti locali, non avendo nessuno contrattato alcun impegno con nessuno.

Seppure guerra di corsa, il vascello Ps deve navigare in mare aperto, seguendo la rotta riformista: da un

lato il Pd, dall’altro l’Udc, senza sottrarsi al confronto con le altre forze riformiste tra cui quelle di origine

socialista presenti nel Pdl. Argomento, questo, sul quale si è battuto molto Gianni De Michelis e si è

speso Bobo Craxi. Una bella scommessa non c’è che dire e Nencini è cosciente che per vincerla bisogna

partire dalle sfide, che sono il pane del socialismo, senza le quali esso sarebbe un reperto archeologico.

La fine che rischia di fare la socialdemocrazia se non riuscirà a rinnovarsi sul piano culturale, politico e

programmatico. E comunque, è iniziato il periodo post Sdi-Boselli, con la nascita del Ps e con l’elezione

di Nencini a segretario. A Enrico Boselli vanno riconosciuti meriti e demeriti. In primo luogo, per essersi

battuto per l’unità, dopo un lungo periodo di diaspora; in secondo luogo, per non aver accettato il diktat

di Veltroni di passare armi e bagagli nel Pd.

Naturalmente, questo avrebbe comportato la fine della peculiarità, del ruolo e della funzione dei

socialisti italiani. Finché questi sono vivi e vegeti, benché a ranghi ridotti, restano una spina nel fianco

del Pd e non solo. Con l’intento che il sogno possa trasformarsi in realtà al più presto, e che l’Italia abbia

bisogno di socialismo. I demeriti di Boselli. Soprattutto uno: di aver insistito su una linea politica che

non era nel Dna del socialismo italiano. Piuttosto che rubarla senza successo a Pannella, avrebbe potuto

riproporgli la Rosa nel Pugno, facendo di necessità virtù. Comunque sia, già i buoi erano scappati dalla

stalla. Alla fine i socialisti soli soletti e i radicali in un compagnia. Una compagnia scomoda, quella del

Pd, e fuori dalla loro cultura politica, ma comoda per essere eletti e per affermare, dopo le elezioni, di

essere una delegazione nel Pd. Come se il Pd fosse una sorta di Onu. A Boselli va addebitato un altro

demerito. Il fallimento della Costituente prodromo del flop elettorale. E qui c’è la responsabilità

personale anche del comitato costituente, che ha lasciato fare e disfare a Boselli come ha voluto, senza

mai opporsi, compresa la sua candidatura alla premiership.

Un comitato che ha peccato di deficit politico e di una visione strategica d’insieme sul futuro della

questione socialista. Vale o no la pena battersi per le sue idee? Invece di volare alto, si sono viste le

prime smagliature nelle “Primarie delle idee”. Un Convegno di cui non è restata traccia. A Montecatini,

proprio per la conduzione della Costituente, gli esponenti più in vista hanno lasciato le penne. Tutto il

potere ai soviet, senz’altro. Le luci si sono spente sul congresso di Montecatini ed è stato merito di

Riccardo Nencini aver saputo dare vigore all’azione e all’iniziativa socialista, vigore di cui, per la verità,

si sentiva da molto tempo bisogno. Dopo Montecatini il Ps è entrato, finalmente, nel mercato politico e si

appresta a essere competitivo. Dio ce la mandi buona.

 Da L’Opinione

Intervista a Cossiga: dal Corriere della Sera

Cossiga compie 80 anni: Moro?
Sapevo di averlo condannato a morte
«La strage di Bologna, fu un incidente della resistenza palestinese»

Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant’anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: “Pelle mala no moridi”; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all’eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, “A carte scoperte”, scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c’era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — “Damnatio memoriae in vita” — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent’anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell’uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?
«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l’è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla “storia criminale” d’Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'”album di famiglia” della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell’innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?
«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l’esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: “Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano”».

C’è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?
«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?
«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente… ».

E’ sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: “Io non c’andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti”».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?
«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle “disgrazie” di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all’odore dell’inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all’Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal ’92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?
«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln…».

Ci sono accuse più recenti.
«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee? «E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D’Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l’unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D’Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E’ vero che lei ha un figlio “di destra” e una figlia, Annamaria, “di sinistra”?«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E’ stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l’ho amata molto».

Aldo Cazzullo
08 luglio 2008

== COSSIGA, SAPEVO DI AVERE CONDANNATO A MORTE ALDO MORO

LA STRAGE DI BOLOGNA? UN INCIDENTE DELLA RESISTENZA PALESTINESE (ANSA) – ROMA, 8 LUG – ‘Quando il Pci di Berlinguer ha optato per la linea della fermezza ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte’. In una intervista al ‘Corriere della Sera’ in occasione dei suoi 80 anni, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga racconta i fatti che hanno segnato la sua lunga carriera politica, dagli anni di piombo, a Tangentopoli, fino al Pd di Veltroni, ‘perfetto doroteo che parla bene senza dire nulla’. Cossiga difende la sua scelta di non trattare con le Br per la liberazione di Moro: ‘Io – dice – ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era cosi’: la dignita’ dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino’.
L’ex presidente della Repubblica ripete anche la sua verita’ sulla strage di Bologna: ‘Fu un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese”, che ‘si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo’. La condanna di Mambro e Fioravanti arrivo’, quindi, perche’ ‘nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista’.
Cossiga si dice anche convinto che ‘la Cia e gli Stati Uniti non siano stati estranei a Tangentopoli, cosi’ come alle disgrazie di Andreotti e di Craxi’, che sono stati ‘i piu’ filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furonono dirottati da Craxi all’Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano’.
Infine uno sguardo all’attualita’ e al Partito Democratico: ‘Ma che cos’e’? – si chiede – Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D’Alema, di cui ho disegnato anche il logo: un punto rosso cerchiato oro’. (ANSA

RASSEGNA STAMPA/ COSSIGA: USA E CIA DIETRO TANGENTOPOLI

(9Colonne) Roma, 8 lug – In una intervista al Corriere della Sera Francesco Cossiga sostiene che gli Stati Uniti e la Cia non sarebbero stati estranei allo scoppio di Tangentopoli “così come certo non sono stati estranei alle ‘disgrazie’ di Andreotti e di Craxi”. L’ex presidente della Repubblica sostiene questa tesi sottolineando che “Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all’Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal ’92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili”. Ricorda quindi il primo incontro con Berlusconi: “Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln…”. E lo difende quindi dalle recenti accuse: “Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour.
Quindi, stiamo con la Carfagna