MALATO TERMINALE PERCHE’ NON HA IL SENSO DELLO STATO

Le dichiarazioni fatte dal Segretario del PD, Pierluigi Bersani, come commento ai risultati elettorali, sono la cartina di tornasole dell’incredibile crisi di identità di una sinistra ormai staccata dal Paese reale e che, vivendo in un paese virtuale, sta tirando avanti come una specie di malato terminale. Si, affermare, infatti, che ‘dal voto non giungono elementi di sfiducia’ verso il proprio partito e, addirittura, dichiarare, senza scoppiare a ridere, che si può parlare ‘di inversione di tendenza’ è la dimostrazione lampante del totale isolamento dalla realtà.

La battuta più feroce, nei confronti di Bersani, l’ha espressa il Grillo genovese che lo ha liquidato con un “delira, rimuovetelo”. Ma non è l’unico. Altri, 49 senatori, hanno sottoscritto una lettera indirizzata al Segretario; altri ancora lanciano proclami; ed altri, esterni (?) al PD, come Di Pietro, affondano la lama nella ferita è chiedono un passo indietro al vecchio gruppo dirigente e la promozione di una nuova generazione di quadri. Ma nel tempo necessario perché essa nasca, cresca e si affermi, lui ‘soldato e non generale’, come si è autodefinito, può candidarsi a guidare la sinistra.

Pochi, pochissimi, però, hanno fatto analisi serie e proposto percorsi concreti, e fra essi, quel Niki Vendola che ha stracciato, mortificato e sconfitto il leader maximo della sinistra post e neo comunista a cui è rimasta ormai solo l’etichetta di leader e quella di maximo, dato che nelle analisi dimostra un totale obnubilamento che lo fa continuare, infatti, ad arrovellarsi il cervello su tattiche e giochi di corridoio contro l’eterno rivale Ualter Veltroni. Vi è di più. Persevera nell’errore dell’isolamento rifiutando il dialogo sulle riforme con la maggioranza e bollando come ‘scellerate trasversalità’ ipotesi di accordi col nemico giurato Silvio Berlusconi.

Quel che dimostra che non c’è speranza, per i sinistri, di un loro rientro nell’agone politico vero non è solo lo snobbare quanti dichiarano che si rischia di restare al palo per molti anni, quanto l’atteggiamento del Bersani che dinanzi agli attacchi non trova di meglio che dichiarare che vuole parlare con tutti, dai 49 senatori protagonisti del ‘pronunciamiento’ allo stesso Grillo. Si continua a pensare, quindi, che tutto possa essere ricondotto a incontri, trattative, confronti ed accordi, dimenticando che a muovere idee e persone sono solo le politiche, le scelte vere che per essere tali non debbono, per forza, essere diverse da quelle della maggioranza.

Le scelte vanno commisurate agli interessi dei cittadini, alla costruzione di un Paese normale, alla fuoruscita dalla crisi, al ripristino della divisione dei poteri, all’isolamento ed alla messa fuori gioco dei settori più scatenati della magistratura che deve ritornare ad essere semplice gestione della giustizia senza ‘missioni di redenzione della società’, alle scelte economiche che guardino all’interesse dell’Italia, alla riforma del fisco ed al suo federalismo, alle decisioni sulle grandi opere, in una parola ad un serie di scelte che dimostrino il ritorno, di questa importante forza politica, tra quelle che hanno il senso dello Stato.

La gente ha espresso il suo disappunto, con l’astensione o con il cambio di schieramento, anche perché non condivide atteggiamenti che considerano positive alcune scelte se a farle è il centrosinistra, e negative se sulle stesse si impegna il centrodestra. Riforma dello Stato, grandi opere, Ponte sullo Stretto, energia, interventi militari all’estero, sono tutti esempi di scelte tattiche contingenti senza alcun senso dell’interesse vero della Nazione.

Senza il ritorno ad una politica che abbia respiro nazionale, sarà impossibile rientrare nel gioco dell’alternanza, e tutto si ridurrà con o senza Bersani ad inseguire le estremizzazioni che a turno faranno Di Pietro, Grillo, popolo viola, magistratura militante e, dulcis in fundo, quello che produrrà l’eterna lotta tra D’Alema e Veltroni. L’Italia con le scelte sulle regionali ha già detto che non gli interessano.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 2.4.2010

LA ‘CHIAMATA ALLE ARMI’ E’ STATA GIUSTA E NECESSARIA

La discussione che si è innescata sul dopo manifestazione del 20 marzo, se era o non era opportuno che il PdL e Berlusconi vi ricorressero, ha tutto il sapore di una incredibile discussione sulla lunghezza del dito che indica la luna. Sembra, in definitiva, una discussione sul sesso degli angeli che sta trascurando ciò che la manifestazione ha prodotto e i cui effetti saranno quanto prima visibili sia nel Paese che all’interno stesso della coalizione dei moderati.

Non tutti, però, stanno facendo questo errore, che tale non è per quanti tendono a sminuire la portata dell’iniziativa e lavorano per ridimensionare l’appeal che la stessa ha determinato nella società, ma ad alcuni (che non possono certamente essere catalogati nella schiera delle penne e dei giornali ‘golpisti’ o pseudo indipendenti), è sfuggita la cosa più importante, e cioè l’emersione, con la manifestazione, di un ‘fiume carsico’ (poco importa stabilirne il numero esatto) che, malgrado gli accanimenti infiniti contro il premier, continua a scorrere gonfio e rigoglioso.

Ancora una volta Berlusconi ha saputo ‘far sgabello delle difficoltà’ e trasformare la situazione in cui si trovava in un vero e proprio trionfo. Ancora una volta ha saputo dire al ‘fiume carsico’ di stare tranquillo perché c’è chi non è per nulla impaurito dell’accanimento mediatico-giudiziario e sa collocarsi saldamente alla sua testa, ed è quello che il ‘fiume carsico’ voleva sentirsi dire, ma ha anche detto con la sua emersione.

Questa emersione è già, di per sé, un fatto rivoluzionario perché ha dato visibilità a quella maggioranza silenziosa che, tradizionalmente, preferisce la riservatezza e che, stavolta, ha voluto rispondere alla ‘chiamata alle armi’ per dire No agli attacchi tesi a liquidare un leader col quale si trova in sintonia, e No agli attacchi alla sua squadra considerati tentativi di liquidare le cosiddette ‘casematte’ che sono capisaldi della forza di un premier. In parole semplici per difendere la democrazia ed evitare il ripetersi del film di mani pulite quando si è lasciato un popolo senza classe dirigente e la ‘gioiosa macchina da guerra’ era pronta per la presa del Palazzo d’inverno.

Con la manifestazione di Roma, necessaria e urgente non solo per l’imminenza del voto regionale, ma anche per dare una dritta all’azione del Governo, Berlusconi ha voluto parlare non solo al suo popolo (il fiume carsico) ma anche, inutile nasconderlo, ai guastatori che, come cavalli di Troia, hanno frenato, dall’interno del PdL, l’azione dell’esecutivo su una serie di provvedimenti urgenti (intercettazioni, separazione carriere e ruoli in Magistratura, par condicio, immunità, ecc.) che sono l’ossatura per ripristinare l’autorità di un potere messo ultimamente in discussione e fortemente indebolito dall’azione di settori, per fortuna minoritari (ma non per questo meno pericolosi) di un potere antagonista come si può giudicare la parte di PM (una generazione di sessantottini) che persegue l’aggressione al premier come missione da compiere.

Chi pensava, fuori e dentro il PdL, della imminente fine di Berlusconi ha fatto male i suoi calcoli. Il Presidente è più vivo che mai, è il più lucido, il più capace, il più amato dal popolo moderato (ed anche per questo il più odiato dall’altra parte di popolo), e dopo San Giovanni l’unico vero leader del PdL che ha ricevuto dalla piazza l’incarico d’andare avanti senza tentennamenti per rifondare il Paese, ripristinare la legalità costituzionale ed evitare l’ascesa al potere degli incapaci.

Le vecchie strade, fatte di proclami tipo ‘pronunciamienti’ sudamericani, non sono più possibili. Le pulci fatte, sistematicamente, al premier non possono più essere tollerate. E’ urgente e necessario rispondere coerentemente all’invito pressante venuto della piazza perché non è più tempo di giochi di corridoio. Su questo percorso si deve andare avanti senza badare a chi si attarda per strada (difficoltà d’analisi, speranze represse, convincimenti di indispensabilità o altro) che, anziché badare al paese, pensa sia giusto lavorare a soddisfare il proprio Io.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 22.3.2010

NON UN PASTICCIO MA UN TENTATO ‘FURTO ELETTORALE’

E’ normale che subito dopo le notizie delle esclusioni delle liste del PdL e dei listini di Formigoni e Polverini, a Roma e in Lombardia, si sia parlato di caos delle liste, del pasticcio delle liste, del pasticciaccio elettorale, di dilettanti allo sbaraglio, di presunzione e faciloneria, crocifiggendo i vertici del partito delle due regioni e poi ‘massacrando’ i presunti responsabili individuati nei presentatori della documentazione agli Uffici Circoscrizionali.

Via via però che passava il tempo e via via che dalla nebbia emergevano i veri contorni della vicenda si è delineata quella che appare una vera e propria manovra politica che sembra avere nei radicali i killer delle operazioni e negli antiberlusconiani gli ideatori. Sembrava assurdo, infatti, che solo il PdL fosse incappato nelle maglie inflessibili di una burocrazia che non ammette deroghe, o che solo il PdL fosse così poco accorto nel realizzare la documentazione necessaria alla presentazione delle liste elettorali. Due assurdità incredibili ed praticamente impossibili.

Gli errori formali, infatti, possono esserci ma (come per i sondaggi) sono equamente distribuiti. Dimenticanza di qualche firma, uso di bollo lineare e non tondo, mancanza della citazione dell’art. 14 legge 53/90, assenza della data di raccolta delle firme, assenza della qualifica dell’autenticatore, trascrizione del firmatario in stampatello o in corsivo, assenza di alcuni certificati d’iscrizione alle liste elettorali, e così via. Sono errori formali presenti chiaramente in tutte le documentazioni, anche quelle curate da superpignoli. E sono errori che, il più delle volte, vengono trascurati dagli uffici stante la loro non influenza nel determinare la volontà dell’elettore.

Anche per la presentazione i delegati a farla, la fanno anche dopo lo scoccare dell’ora x. Vige infatti la regola che siano ammessi tutti coloro che, nel preciso istante della scadenza, si trovano nei locali predisposti all’accettazione e che debbono attendere il loro turno. Ciò perché essendo normale presentarsi all’ultimo momento e dovendo perdere almeno 20/30 minuti, a lista, per la consegna e la ricezione del relativo verbale, le operazioni conseguenti arrivano anche a superare di due ore la scadenza prevista delle ore 12. Tra coloro che attendono il loro turno, tra l’altro, si crea un clima di reciproca solidarietà e tolleranza perché questo passaggio (il deposito delle liste) non è stato mai considerato parte fondamentale dello scontro tra i partiti, nè occasione per ‘sgambetti’.

Stavolta non è stato così. Alfredo Milioni e Giorgio Polesi, protagonisti di decine di presentazioni, quindi persone esperte, sono stati oggetto di un vergognoso ‘sgambetto’. In barba ad ogni civile rapporto tra ‘colleghi’, si è approfittato, infatti, da quel che hanno raccontato i due presentatori di Roma e che regolarmente è stato inserito nel ricorso, di un momento di distrazione per il cambio a ‘tenere la fila’, per trovarsi bloccati e impediti a rientrare nei confini delimitati da una ipotetica linea gialla, dai signori radicali (aiutati dal Presidente dell’Ufficio e dalla forza pubblica) malgrado oltre la linea ci fossero i plichi depositati.

A Milano è andata ancora peggio e Formigoni lo ha denunciato energicamente. L’Ufficio Circoscrizionale ha accolto un ricorso dei radicali (che non ne avevano titolo), e ha consegnato loro la documentazione della lista del Presidente che è stata spulciata, studiata e non si sa cos’altro, per ben 12 ore senza la presenza del rappresentante legale della lista stessa (altra anomalia). Tanta solerzia non si è usata per le altre liste sulle quali ha chiesto poi di verificare il Governatore uscente che, alla presenza dei rappresentanti delle rispettive liste, ha riscontrato in esse diversi e svariati errori.

E’ assurdo che ancora oggi i media continuano a parlare di pasticcio delle liste, e che lo facciano anche i giornali amici dei moderati, mentre c’è da parlare di tentato furto elettorale, perché si è tentato di ottenere, con l’eliminazione dell’avversario, una vittoria altrimenti impossibile. Il risultato del ‘furto’ sarebbe stato quello di eleggere governi regionali con la partecipazione di poco meno del 40% degli elettori in Lombardia, e meno del 50% nel Lazio.

Di Pietro aveva dichiarato di volere la vittoria sul campo e non a tavolino, ma guarda caso ha cambiato idea quando l’avversario è di nuovo spuntato all’orizzonte. Forse mentiva per dimostrare la sua disponibilità e ottenere qualche insperato sostegno. Di certo è così impaurito del confronto democratico che è totalmente andato su di giri con la richiesta di impeachment per Giorgio Napolitano reo d’aver aiutato a ripristinare la legalità democratica facendo partecipare al voto milioni di elettori che con il tentato ‘furto’ erano stati esclusi.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 6.3.2010

BIPOLARISMO? E’ MEGLIO E PIU’ FACILE VINCERE DA SOLI

Quanto si è verificato a Roma e in Lombardia, con le esclusioni, almeno finora, delle liste del PdL e del listino di Formigoni, è qualcosa di veramente sconcertante come sconcertanti sono le dichiarazioni seguite che azzerano, in un sol colpo, tutte le filosofie sul bipolarismo. E’ chiaro infatti che senza uno dei contendenti la partita è inesistente e il bipolarismo è praticamente scomparso.

La cosa certamente esalta chi non assaporava la vittoria da molto tempo, ed era destinato a non assaporarla neanche adesso, e crede che ottenerla, con qualunque mezzo, sia un dono del cielo che non si può rifiutare. Tra essi ci sono i radicali che sono stati i protagonisti delle due vicende, a Roma vietando con la violenza l’accesso agli uffici circoscrizionali, e in Lombardia con un ricorso ben orientato di Marco Cappato. Ma ci sono anche i signori del PD con in testa Bersani che ripete in modo monocorde ed ossessivo che le regole sono regole e vanno rispettate.

Che in Lombardia ci sia solo un 40% che li sostiene è irrilevante, che nel Lazio il malgoverno e le vicende Marrazzo non vengano sottoposte al giudizio degli elettori e che questo giudizio non possa influire sulla ricerca di una nuova classe dirigente, è pure là di secondaria importanza. Ma chi se ne importa che è solo una minoranza a determinare le scelte politiche nelle contrade lombarde? E chi se ne frega, dicono sinistri e radicali, che a Roma non vi sia partita sulle vicende passate e sui programmi futuri, e si porta alla Presidenza della regione una mangiapreti come Emma Bonino?

L’importante è vincere e, parafrasando Borrelli, vincere, vincere, vincere. Conquistare posti di potere ed occuparli con qualunque mezzo e con qualunque colpo di fortuna sembra l’imperativo categorico che anima l’incolore e monocorde Pierluigi Bersani. Il lungo digiuno di potere patito, soprattutto in Lombardia, dal partito da lui diretto, ha fatto letteralmente perdere la testa ai soloni della sinistra, e ad una miriade di partiti, partitelli e movimenti, i cui dirigenti sperano, come Bobo Craxi, che la vicenda regali loro qualche briciola come una elezione che prima era soltanto un improbabile sogno.

I problemi della democrazia, e il vulnus ad essa inferto, (dimostrando quanto sia ‘alta’ la capacità di guardare oltre il contingente) passano in secondo ordine. Adesso è il momento d’incassare (se è possibile incassare), e tutti sono in fila chiedendo rispetto delle regole. In questo coro di possibili ‘miracolati’ c’è solo una voce diversa. Sembra assurdo, incredibile, sconvolgente ma è così soprattutto per Bersani e company che stavolta sono stati scavalcati a destra, o meglio, che stavolta hanno subìto una lezione politica inimmaginabile. C’è un signore, infatti, che vuole vincere sul campo, che rifiuta la vittoria a tavolino, tanto inseguita e pretesa dai suoi alleati, che chiede una soluzione politica all’intera vicenda. Incredibile, ma vero, si tratta di Antonio Di Pietro.

Non crediamo a improvvise conversioni democratiche sulla via di Damasco del trattorista di Montenero di Bisaccia. Se Di Pietro, infatti, sceglie la politica, e vuol trovare una soluzione al problema, vuol dire che non vuole che i suoi alleati vincano in alcune regioni. Li preferisce all’opposizione dove egli è un gran maestro e sa dirigere il ballo, o forse li conosce meglio di altri e li vuol tenere lontani dal potere visto come l’hanno gestito Antonio Bassolino e Agazio Loiero.

Ma la ‘conversione’ di Di Pietro, qualunque sia la motivazione, è una lezione a chi ciancia di democrazia, di Costituzione e si schiera contro la maggioranza di intere popolazioni.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 4.3.2010

SE SULLE LISTE SI ABDICA LA PARTITA E’ NETTAMENTE PERSA

No, non mi convince per nulla che il terreno di gioco debba essere scelto dagli altri, come purtroppo sta avvenendo con la nuova ‘moda’ del ‘bianco che più bianco non si può’, che, tra l’altro, è un film già visto che gli immemori debbono sforzarsi di ricordare prima di cavalcare le nuove mode che, tra le righe, nascondono propositi forcaioli.

Ai tempi di ‘mani pulite’ avvenne che per non essere accusati di ostacolare il cammino della giustizia-pulizia la classe politica (soprattutto quella che era nel mirino dei ‘falsi rivoluzionari’) depose le armi, senza alcun onore, e pavidamente si fece dettare le scelte che il Parlamento rese legali come l’abolizione dell’immunità parlamentare. E anche prima dell’avvio del tentativo di presa del Palazzo d’inverno, la stessa classe politica, che doveva essere collocata sulla pira ad ardere, scrisse sotto dettatura ‘l’amnistia’ del finanziamento illecito ai partiti fino al 1989, e l’introduzione di forti e illimitati poteri ai PM.

Sono i tre passaggi fondamentali della strategia ‘golpista’ dei comunisti di allora. Con l’amnistia si metteva il PCI al riparo da possibili incidenti di percorso (finanziamento estero, condivisione del ‘finanziamento interno’, e sistema delle coop); con la modifica del ruolo e dei poteri dei PM si promuoveva la generazione dei sessantottini approdati in Magistratura per poterli usare adeguatamente per la ‘via italiana al potere’; con la rinuncia all’immunità ci si presentava nudi dinanzi ai plotoni di esecuzione per essere definitivamente spazzati via.

Ed è ciò che avvenne. Anche oggi con la vicenda ‘liste pulite’ si rischia di fare ciò che altri vogliono. Da una parte spostare i centri decisionali, nella formazione delle liste, dai partiti ai PM; dall’altra indebolire il caposaldo dei garantisti rappresentato dalla presunzione di innocenza dell’accusato, prevista , tra l’altro, dalla stessa Costituzione italiana; dall’altro ancora ridurre il consenso liquidando i candidati più forti. E’ abbastanza chiaro che sulle questioni di principio cedere una volta significa aprire una breccia dalla quale passeranno richieste sempre più oltraggiose e forcaiole.

Giustificare il cedimento con l’esigenza di non perdere qualche frazione di punto di consenso, e con l’esigenza di bloccare la possibile crescente polemica sulla questione, è solo un gravissimo errore. E’ una pia illusione pensare che togliere chi è stato condannato, in via definitiva, dalle liste (cosa normale e giusta e che già era prassi costante) sarà sufficiente, perché si chiederà di togliere anche quelli condannati in prima istanza, e poi di liberarsi anche di quelli semplicemente rinviati a giudizio, e indi di quelli più semplicemente indagati e con avviso di garanzia, e poi quelli che hanno un parente che ha salutato un inquisito di mafia, e infine, quelli iscritti ai partiti moderati che, soltanto per questo, saranno di sicuro possibili malfattori.

E’ chiaro, quindi, che l’obiettivo è ‘scarnificare’ i partiti considerati ‘nemici’. Ma immolarsi per far felici Di Pietro, Franceschini, Donadi, Bindi, Bersani e quant’altri è gesto semplicemente gratuito. Togliere dalle liste i condannati va bene, ma togliere anche gli indagati significherebbe delegare ai De Magistris di turno la composizione delle liste, ben sapendo che i PM alla De Magistris inquisiscono il mondo intero ma, alla fine, delle loro inchieste resterà soltanto il fumo, il pettegolezzo da bar sport e il crucifige mediatico del malcapitato, con la vita sconvolta e la carriera politica stroncata, dato che tutte, sottolineo tutte, le loro inchieste hanno fatto e faranno solamente flop.

E’ sopra le righe, quindi, invitare la classe dirigente moderata a maggiore cautela sull’argomento, senza farsi tirare dalla giacchetta dalle Angele Napoli disseminate per il nostro Paese? Berlusconi, da par suo, lo ha capito perfettamente, dovrebbero, però, capirlo tutti gli altri.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 25.2.2010

IL DI PIETRO ROBESPIERRE SULLA VIA DEL TRAMONTO?

Chi l’avrebbe mai pensato che anche l’ex poliziotto molisano potesse usare toni più pacati e meno giustizialisti nelle sue esternazioni? Eravamo così abituati all’assenza della politica nei ragionamenti dipietreschi, al posizionamento su off dell’interruttore del cervello, e all’uso smodato della pancia, che siamo rimasti basiti per la correzione che il trattorista di Montenero di Bisaccia ha dedicato alle affermazioni stupefacenti che il nuovo idolo dei manettari, Gioacchino Genchi, ha fatto al Congresso dell’IDV.

Superata però la fase dello stupore, e perché abituati a tentare di leggere e interpretare ciò che si muove dietro le quinte, ci si è sforzati di capire i motivi di questa incredibile giravolta e ciò che bolle nella pentola dell’Italia dei Veleni. La ‘correzione’, comunque, se è servita a disinnescare il caso che stava montando all’esterno del Partito, non è servita per nulla a far rientrare le differenze all’interno dell’IDV. Infatti la ‘correzione-reprimenda’ al Genchi non ha liquidato la fronda interna, se è vero come è vero, che gli stessi concetti sono stati ripetuti, il giorno dopo, a Porta a Porta, dall’altro idolo dei pancisti, Luigi De Magistris.

Nel caso della giravolta di Di Pietro si può pensare ad un esaurimento della ‘spinta propulsiva’ dipietresca, come avrebbe detto Berlinguer, che ha fatto venir meno il sostegno di quei poteri forti che hanno allevato, sostenuto ed appoggiato il leader dell’IDV. Non è il Giornale di Feltri, infatti, che stavolta dirige l’orchestra, ma il Corrierone che ‘sbatte il mostro in prima pagina’ con foto conviviale dove l’unico a non essere dei servizi è, ufficialmente, solo Di Pietro.

La cosa sorprende innanzitutto l’interessato che non sa darsi una spiegazione e, nel dubbio su chi e perché, preferisce un ombrello protettivo quale può essere l’esperienza del PD. Alleanza elettorale, quindi, col partito di Bersani, dopo mesi e mesi di scontri sanguinosi, e sullo stesso altare il Tonino nazionale è costretto a toni concilianti ed a bere, addirittura, la cicuta rappresentata del candidato a Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che fino a qualche giorno prima veniva attaccato come plurinquisito e non degno del sostegno dell’IDV.

Reprimenda e fronda sembrano svilupparsi per evitare la caduta del vecchio leader e ottenere l’ascesa dei nuovi protagonisti interpreti delle spinte più giacobine ed oltranziste esistenti nel paese e che di volta in volta si sono proiettati sul palcoscenico del Paese come girotondi, V-day, No-B day, e che hanno individuato nell’IDV il movimento più adeguato alle aspettative forcaiole. Non si tratta quindi di scelte tattiche riconducibili solo alle elezioni prossime, ma di scelte obbligate per la sopravvivenza da una parte, e dettate dalla necessità di chiudere l’esperienza dell’attuale leadership, dall’altra. La fronda odierna, che cresce giornalmente nel Partito, è una fronda pericolosissima, e può portare alla stessa decapitazione del nostrano Robespierre.

La differenza rispetto al passato sta nel fatto che le fronde di ieri si sviluppavano partendo da ‘insoddisfazioni’ personali, magari riferite ai rimborsi elettorali, e le rotture con relative espulsioni dal partito non avevano nulla di politico: i frondisti venivano facilmente additati come gli ‘attentatori’ della linea giustizialista del leader ed eliminati, come zavorra inutile. Le fronde odierne si sono espresse solo dopo aver conquistato i cuori dei ‘pancisti’ ai quali si sono presentati come reali interpreti delle pulsioni giustizialiste che animano il corpo del Partito, e vengono individuati dalla base come reale alternativa politico organizzativa che, a differenza dell’ultimo Di Pietro, mantengono alta la bandiera dell’odio con un linguaggio appropriato e abbastanza forbito.

Se le cose stanno così sembra veramente un percorso programmato (servizi?), per poter passare ad un’altra fase. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 10.2.2010

PATETICI E VOLGARI UTILIZZATORI DELLA ‘COMPAGNA VERONICA’

Se quanto sta avvenendo nei confronti di quello che fu, per trent’anni, suo marito, col gossip elevato ad arma di lotta politica, fa ‘star bene’ la signora Lario, vuol dire che è completamente andata o è, anche se inconsapevolmente, in intelligenza col nemico. Le due ipotesi, comunque, non sono in alternativa tra loro, ma possono tranquillamente coesistere. Puntare al declino di Silvio Berlusconi , padre dei suoi figli, per soddisfare il proprio orgoglio e sentirsi protagonista, con un quart’ora di
celebrità, oltre che inconcepibile dimostra la ristrettezza di vedute e di analisi di una donna che non vede aldilà del proprio io; ma farlo utilizzando, come sempre del resto, strumenti della feroce campagna contro il premier, com’è la Repubblica, dà la sgradevole sensazione di un percorso studiato a tavolino e chiaramente premeditato in ogni particolare. Non sarà così?, ma così appare.

E il PD, complotto o non complotto, si è voracemente buttato sul ghiotto boccone, inaspettatamente, messogli a disposizione. Ancora una volta emerge la pochezza del suo essere, ridotto ad inseguire, con furia, capitoli di vita privata che in un primo momento erano stati, con molto fair play, scartati con la franceschiniana frase del “fra moglie e marito…”, tanto da indurre il premier a dichiarare che, per la prima volta, era d’accordo col Dario ferroviere. Nella base invece è esploso l’amore per la signora Veronica (tradita, vilipesa e trascurata). Si illude però la signora se pensa ad un amore senza interessi. Dopo mesi di sconfitte, di declino inarrestabile, di concorrenza dipietresca tesa allo svuotamento del PD, ci si aggrappa, come i naufraghi, a quel che, illudendosi, si pensa possa essere, finalmente, la svolta, e si ‘ama’ chi, si pensa, possa determinarla.

Ciò ha indotto Marcelle Padovanì ad affermare che Veronica “era l’unica in grado di bloccare il fantastico consenso di Berlusconi colpendolo alle ginocchia”, tanto da meritarsi l’appellativo di “compagna Veronica” così come vorrebbe il “popolo della sinistra”. Ma c’è anche chi, come Mario Adinolfi (Direzione nazionale del PD), senza giri di parole, dice chiaramente di bandire l’ipocrisia e valutare il divorzio di Berlusconi per quel che è: “un’occasione per il Partito Democratico”. Su questo terreno i più scatenati sono gli ex democristiani che incuranti del ridicolo stanno trasformando, quel che molte donne ingenuamente hanno pensato di considerare un simbolo del riscatto femminile, in una occasione di rivincita politica.

A loro (Rosy Bindi, Castagnetti e Franceschini e &) non importa nulla della signora Lario, interessa solo strumentalizzarne la vicenda, ‘utilizzarla’ senza alcuna remora, farne un cavallo di battaglia capace di riempire i trenta giorni di campagna elettorale che ci stanno davanti. Poveretti, non hanno una politica, sono senza bussola, cambiano mediamente un Segretario ogni due anni, quando vincono in uno sperduto paesino dell’entroterra esultano come bimbi che hanno trovato una caramella, hanno realizzato “un amalgama mal riuscito” (D’Alema) e accolto nel letto un classico riccio (Di Pietro) che li sta letteralmente spolpando. Non c’è più partita, ma continuano ad illudere e a illudersi che il vento possa cambiare.

Hanno trovato sostegno nelle Concite di turno, mandate, magari, avanti per non segnare un’assoluta presa di distanza che poteva essere interpretata come sfiducia al Segretario, ma non l’hanno trovato nell’on. Umberto Ranieri che invitando ad astenersi da ‘sgradevoli dichiarazioni’ su ‘fatti privati’ raccomanda di ‘non coltivare l’illusione che Berlusconi lo si possa sconfiggere utilizzando storie del genere’. Storie che si trasformano sempre in veri e propri boomerang.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 6.5.2009

IL PONTE E’ UNA SCELTA STRATEGICA IRRINUNCIABILE

Dopo il terremoto dell’Abruzzo, giocando sul dramma di quelle popolazioni, non si perde occasione per gridare ai quattro venti che mancando i soldi per la ricostruzione è necessario rinviare di qualche anno alcune opere infrastrutturali di grande peso, e fra queste, si chiede a gran voce il rinvio dello stesso Ponte sullo Stretto di Messina. Si approfitta della sciagura subìta dagli abruzzesi per tentare di bloccare un’opera strategica per lo sviluppo del Mezzogiorno.

In questa operazione si distinguono i soliti ‘sinistri’ e il trattorista molisano che dovunque si trovi, in qualunque trasmissione venga invitato, ripete in modo ossessivo e sguaiato la stessa richiesta di sospensione dell’iter realizzativo del Ponte per dedicare ogni attenzione, operativa e finanziaria, alla ricostruzione dell’Aquila e dei paesi colpiti dal sisma. Solo un misto di vergogna e pudore lo blocca nel chiedere la sospensione del Mose, della Tav e dell’Expo di Milano. O forse pensa che scontrarsi col Nord del Paese non sia per nulla salutare, mentre sembrerebbe più facile poterlo fare con il Sud? La Moratti è stata chiara, ammonendo con “il terremoto non fermi l’Expo. Non credo che la risposta sia non fare progetti che dentro di loro hanno capacità di creare ricchezza e posti di lavoro”. Vale per l’Expo, vale per il Ponte.

Bisogna, comunque, dire subito che gli interventi, massicci e urgenti, a favore dell’Abruzzo non sono per nulla in contrasto con la realizzazione di opere strategiche per l’intero Paese, anche perché non siamo, tra l’altro, un Paese così disastrato da essere messo in ginocchio per un terremoto ed essere sospinto a dover scegliere le priorità da affrontare. Se così fosse stato non saremmo la settima potenza industriale del mondo, e non avremmo potuto dire, alle nazioni amiche, che non avevamo bisogno di interventi finanziari come ha fatto il nostro premier Silvio Berlusconi.

La decisione di non sospendere l’iter del Ponte non va vista sol perché il problema finanziario è un falso problema, strumentalmente agitato dalla Casta del NO, ma deve essere letta per quello che effettivamente è: il non voler rinunciare ad una scelta strategica che può determinare una grande inversione di tendenza per l’intero Mezzogiorno. Pensare, come molti fanno, che il Ponte tutt’al più serve le due aree limitrofe di Reggio e Messina , e sarebbe una grande attrattiva turistica, il che è anche vero, sarebbe un errore. Il Ponte come rileva Zamberletti , Presidente del CdA Stretto di Messina Spa, ”è particolarmente strategico per il Sud perché, con il completamento del programma di alta velocità, il Mezzogiorno sarà collegato con il sistema ferroviario europeo rappresentando così un importante fattore di sviluppo per tutte le regioni meridionali”.

La vera novità del Ponte, rileva ancora Zamberletti, ”è che si tratta di un ponte ferroviario, e non solo stradale, che permetterà ai porti siciliani di diventare porti europei strategici con un grande vantaggio per quanto riguarda i costi di trasporto delle merci. Le merci in partenza dalla Germania e dirette verso l’Oriente, ad esempio, guadagnerebbero cinque-sei giorni di navigazione se dopo un transito in treno venissero imbarcati in Sicilia”.

Col Ponte, quindi, si darebbe l’avvio a grandi opere di infrastrutturazione a monte e a valle, e con esso avrebbe senso collegare Calabria e Sicilia all’Alta velocità rendendo veloce il corridoio Berlino-Palermo, e togliendo le regioni periferiche del Paese dal perenne isolamento in cui si trovano. Chi sbraita contro il Ponte, con argomentazioni cervellotiche (l’ombra del ponte disturberebbe il passaggio dei delfini), o con la diffusione di paure per le infiltrazioni mafiose che uno Stato forte può e deve saper controllare, o con subdoli marchingegni che, strumentalizzando il sentimento di pietà degli italiani per i lutti in Abruzzo, è un nemico vero, giurato e in malafede. E’ chiaramente un nemico del Mezzogiorno. Fra questi nemici primeggia Antonio Di Pietro.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 18.4.2009

LA COLLANA DEI ‘NO’ AL GOVERNO BERLUSCONI

Son passati circa dieci mesi dal varo del Governo Berlusconi e, senza soluzione di continuità, i signori della sinistra post comunista hanno mantenuto fede alle loro tradizioni ed alle loro radici, sviluppatisi sul terreno di un’autentica doppiezza, ed hanno disseminato il campo politico di una serie di NO che, a ruoli invertiti, NON sarebbero stati TUTTI tali. E’ ovvio che si parla solo dei NO espressi su provvedimenti nazionali perché elencare anche quelli periferici sarebbe stato veramente un compito improbo.

Ha iniziato Veltroni non contento della sconfitta subìta, e non pago dei rovesci che si susseguivano ad ogni elezione. Ha continuato Franceschini, anche lui, non ancora soddisfatto delle calamità abbattutesi sull’amalgama ‘malriuscito’ com’è stato definito il PD. Ambedue, comunque, prigionieri dell’inseguimento della loro creatura, tal Antonio Di Pietro che, senza un briciolo di riconoscenza, si sta comportando come quel ‘lupo africano’, il licaone, che sbrana e divora le proprie vittime quando sono ancora in vita. Da qualche giorno, però Franceschini, sembra aver cambiato tattica con il lancio di proposte demagogiche e populiste.

Ma vediamo, in sintesi, le nove perle espresse a gran voce dai dirigenti pro-tempore della sinistra catto-comunista del PD, la sola, per intenderci rappresentata in Parlamento, ma scarsamente sostenuta dall’opinione pubblica.

• Giustizia 1: si è partiti col no al cosiddetto ‘lodo Alfano’ che non annulla i procedimenti penali a carico delle più alte cariche dello Stato ma li rinvia (bloccando, comunque, la decorrenza dei termini). Si è sparato ad alzo zero, minacciando referendum e quant’altro, e presentando la legge come un tentativo d’impunità e non, com’è negli altri paesi occidentali, come un meccanismo per sottrarre, nel periodo di vigenza dell’incarico istituzionale, gli interessati alla gogna mediatica.
• Giustizia 2: anche sulle intercettazioni un deciso no, presentando l’ipotesi di riforma (non di abolizione delle intercettazioni) come un “regalo alla criminalità”, e non per quello che è realmente, cioè la liquidazione degli abusi usati spesso per fini non di giustizia.
• Federalismo: le difficoltà a cavalcare un no netto nascono dalla necessità di lanciare segnali di fumo alla Lega nella non nascosta, ma illusoria, speranza di un nuovo ribaltone. Alla fine, però, prevalgono le categorie dell’unità d’Italia, e del no all’aumento della spesa pubblica e della burocrazia.
• Scuola: ci si ricorda il grande battage contro la Gelmini, il tentativo di cavalcare l’ONDA, l’uso strumentale degli scolari contro lo smantellamento della scuola elementare e il falso licenziamento dei professori in esubero.
• Alitalia: allarmismi ad iosa, accuse di promesse preelettorali, ma nessuna controproposta, e oggi l’Alitalia è di nuovo in attività con una cordata di imprenditori italiani. Si continua a polemizzare sui tre miliardi di debito della compagnia scaricati sugli italiani.
• Grandi opere: un No a TAV, Mose e Ponte sullo Stretto (presentato questo come specchietto per le allodole) a fronte di un’esaltazione del superpiano di Barack Obama teso a bloccare la crisi che ha colpito l’Occidente.
• Social Card: è stata considerata un’elemosina di Stato (dimenticando quanto abbiano ‘gradito’ i pensionati al minimo).
• Nucleare: tenendo conto del nuovo orientamento dell’opinione pubblica, il No alle centrali nucleari non viene espresso per motivi ‘ambientali’ o cavalcando la paura del dopo Chernobil, ma semplicemente perché ‘sarà l’ennesimo spreco di denaro pubblico’, mentre comprare l’energia dalla Francia o da altri paesi confinanti sarebbe un risparmio.
• Piano case: prima ancora di conoscere il piano il Franceschini si è scatenato con un ‘si apre una nuova stagione di cementificazione selvaggia’ ignorando che il piano è una cornice quadro, mentre le azioni concrete spettano alle Regioni (Loiero, per esempio, è d’accordo).

Come si vede sono ‘NIET’ a prescindere che hanno spazzato e continuano a spazzar via qualsiasi possibilità di dialogo che pur servirebbe al Paese, con i tempi che corrono e la depressione imperante. Ma fintanto che si guarda a come evitare scavalcamenti e concorrenze, più o meno leali da parte di alleati, sarà difficile se non impossibile vestire i panni di forza sensibile agli interessi della Nazione.

Anche le ultime boutade di Franceschini non aiutano presentando una forza con corto respiro e senza vere idee per il futuro del Paese.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria, 12.3.2009

NESSUN ONOR DELLE ARMI A WALTER VELTRONI

E’ condivisibile pienamente la prima parte dell’articolo di Vittorio Sgarbi sulle cause che hanno portato Walter Veltroni alle dimissioni, non più rinviabili, da Segretario Nazionale del PD . Sono condivisibili le argomentazioni, ivi inserite, che stanno alla base di un abbandono che non era più procrastinabile, ma che anzi era diventato addirittura un atto dovuto, per evitare di scivolare nel cosiddetto ‘accanimento terapeutico’.

Alle sottolineature sui colpevoli silenzi sulla vicenda di Del Turco, all’incomprensibile inerzia sulla vicenda dell’arresto del sindaco di Pescara, alla soggezione al populismo dipietresco, vanno aggiunte anche la perdita di ogni bussola dinanzi alla questione morale esplosa anche a sinistra, l’incredibile uso del maanchismo con il quale si dava un colpo al cerchio ed uno alla botte, l’allarmismo sugli inesistenti rischi per la Repubblica paventando una deriva antidemocratica, e un lessico fatto solo e soltanto di luoghi comuni. Ma non si può condividere la chiusa finale dell’articolo con la quale Sgarbi rende onore al caduto.

No, non è possibile offrirgli l’onore delle armi come si usa offrire ad ogni caduto. Non lo merita, Veltroni, simbolo di una classe dirigente incapace, inconcludente e, anche, pericolosa. Non lo merita veramente. Pur non essendo maramaldi, usi a infierir sui morti, non riusciamo a perdonargli le grandi responsabilità, non tanto verso il proprio partito (questo è problema che non ci interessa), quanto verso la democrazia del Paese: per l’odio che ha seminato avvelenando il clima politico e per le gemmazioni prodotte che, dopo ‘palombelle’, girotondi, Fo, D’Arcais, verdi, Grilli, sinistre radicali e, più recentemente, Pardi, Cammilleri e Levi di Montalcino, ha portato allo sviluppo incontrollato dell’IDV di ‘proprietà’ del signor Antonio Di Pietro.

No, nessun onore delle armi a chi, dopo 5 sconfitte consecutive (elezioni politiche, regionali Friuli, comunali di Roma, Abruzzo e, ora, anche Sardegna) non ha voluto prendere atto di una realtà semplice e lapalissiana, e, anche durante la propria orazione funebre, ha continuato a seminare bugie ed odio, e ad insultare il Presidente del Consiglio. Non lo ha sfiorato, e questo è sintomatico della pochezza del personaggio, e non solo di esso, che Silvio Berlusconi continua a vincere perché è in sintonia con il Paese, comprende il ‘sentire comune’ della gente, è un passo avanti rispetto al percorso politico degli altri, avversari (non nemici) o alleati stessi. I suoi tempi non sono mai state fughe in avanti, ma anticipazione di scenari.

E’ difficile pensare che l’attuale gruppo dirigente, sia quello che ha sostenuto Uòlter, che quello che brigava (come sempre ha fatto) contro, possa cambiare musica, anche perché la musica di questi anni è stata scritta da più mani. Le vittorie, si sa, hanno molti padri, mentre le sconfitte normalmente sono figlie di nessuno. Nel nostro caso, però, i padri dei rovesci subiti dal PD sono veramente molti. Non può tirarsi fuori nessuno. Sono quasi tutti padri dell’odio, della mistificazione, del giustizialismo, del doppiopesismo, della mancanza di respiro politico, dell’assenza di un vero programma politico, del tornaconto partitico sul cui altare hanno immolato tutti gli utili idioti, sia che si chiamassero socialisti, o che si chiamassero verdi, rifondaroli, comunisti critici, o comunisti nudi e crudi.

Anche la scelta di ‘imbarcare’ solo Di Pietro non può essere stata solo una scelta esclusiva del nostro Veltroni perché, se così veramente è stato, vuol dire che, pur di mandarlo deliberatamente al macello, gli hanno consentito l’innesco di una vera e propria mina con il risultato, non solo, di liquidare il signor Uòlter, ma di liquidare lo stesso partito. Lo stratega di questa operazione va paragonato a quel marito che per far dispetto alla moglie… Buon riposo, signor Veltroni, l’Africa l’aspetta. Avanti un altro.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 20.2.2009

DI PIETRO S’E’ BLINDATO CONTRO I ‘GUASTAFESTE’

Prima o poi, com’era prevedibile, doveva accadere. Come sempre, (vedi Robespierre), anche i più feroci inquisitori subiscono la stessa sorte che hanno imposto agli altri. E non certo solo per fatti ‘penalmente rilevanti’, perché in politica si paga dazio anche per fatti che cozzano terribilmente con il senso comune della gente semplice, con la prassi morale imperante, e con la stridente collisione con le bandiere sventolate ad ogni piè sospinto.

E’ bastata una serie di telefonate del pargolo dipietrino per aprire un processo di messa a fuoco di notizie che, nei mesi e nelle settimane passate, venivano soltanto sussurrate o soltanto timidamente pubblicate, ma sempre ignorate dalla grande stampa italiana, e spesso oggetto di querele da parte dell’interessato che non accettava alcuna critica e respingeva ogni possibile addebito. Stia tranquillo l’ingenuo Cristiano, che magari si sente in colpa col paparino, la ‘cosa’ era destinata ad emergere. Era solo questione di tempo, e la pentola in ebollizione sarebbe esplosa con grande fragore, lui, semmai, è stato solo l’inconsapevole detonatore.

Della vicenda comunque non ci interessano i lati ‘penalmente rilevanti’ (questo è essenzialmente compito della magistratura), a noi interessano i lati politici e le incongruenze denunciate, sui media nazionali, nel comportamento del ‘leader’ del qualunquismo populista qual è Antonio Di Pietro. Due sono i problemi che attendono risposte adeguate e sui quali vogliamo soffermarci, a parte i motivi, mai chiariti, della spettacolare dismissione della toga quand’era al culmine della popolarità che, la parte più viscerale del popolo italiano (quello per intenderci che non usa cervello o cuore, ma solo pancia), non nega a nessuno.

Il primo problema è capire come Di Pietro sia venuto a conoscenza di un’inchiesta, (coperta dal segreto istruttorio), che coinvolgeva sia il Provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise dott. Mautone (poi arrestato, liberato per vizi di forma e riarrestato), sia lo stesso figliuolo Cristiano. Il primo trasferito d’urgenza al Ministero, il secondo, come d’incanto, ha interrotto le telefonare al Mautone. Di Pietro prima risponde che lo ha saputo ‘dalle agenzie’, ma detta giustificazione è risultata falsa, perché le notizie in merito, a luglio 2007, non esistevano (segreto istruttorio); successivamente parla di aver ‘annusato’ l’aria convinto di chiudere così la vicenda, magari pensando che gli italiani (non quelli di pancia, ma quelli di testa) siano dei perfetti imbecilli a cui si può raccontare la favola dell’asino che vola.

Il secondo problema nasce dai rimborsi elettorali (40 milioni di euro pari a circa 80 miliardi di vecchie lire) che, si è saputo, non andavano al Partito dell’IDV, ma all’Associazione IDV i cui unici membri sono solo Antonio Di Pietro (presidente), la moglie Susanna Mazzoleni e l’amica di famiglia Silvana Mura (tesoriere) promossa deputato. L’incredibile sta nel fatto che nel Partito (che non conta nulla) ci si può iscrivere quando e come si vuole, mentre nell’Associazione si può entrare, con atto notarile, solo se vuole Di Pietro, e in questi anni chiaramente non ha voluto alcuna ‘contaminazione’. L’Associazione è quella che controlla il finanziamento elettorale. Egli giustifica questa blindatura antidemocratica con una frase illuminante: “Noi (chi? Lui, la moglie e l’amica?) ci siamo garantiti così, e ci sentiamo tranquilli dalle rivendicazioni di qualche guastafeste”. Cioè, in parole povere, nessuno può mettermi in minoranza e la cassa del partito la controllo comunque io, in barba agli oppositori interni al partito chiamati semplicemente guastafeste.

Sorge da ciò un problema delicatissimo, e una domanda specifica: può esserci in un Paese democratico, come l’Italia, un partito gestito in modo così antidemocratico? Se la risposta è no, vanno assunte iniziative per far si che i partiti, tutti i partiti, abbiamo realmente una vita democratica. E’ un altro dei problemi da affrontare per far crescere la democrazia dell’intero Paese.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria, 5.1.2009

  • GRAZIE A CRISTIANO DI PIETRO, FORSE…

    Clemente Mastella, in modo accorato, ha dichiarato che non avrebbe osato pensare a cosa sarebbe successo se una telefonata come quella del ‘pezz’e core’ Cristiano Di Pietro fosse stata registrata sulla propria utenza telefonica. “Per molto meno -ha continuato- mia moglie Sandra è stata arrestata, ed io ho dovuto lasciare il Ministero di Grazia e Giustizia, il partito, la carriera politica”. Con questa battuta il caro Clemente ha sintetizzato il doppiopesismo giudiziario esistente in Italia che, proprio per l’affermazione che lo ha basìto, sembra essergli nuovo e inedito.

    No, caro ex Ministro di Grazia e Giustizia, non c’è nulla di nuovo oggi nell’aria, anzi è tutto antico. Solo chi non ha voluto vederlo, non s’è accorto che venivano usati, e non solo dai media, due pesi e due misure, a seconda dell’appartenenza politica dei soggetti interessati. Solo chi, spinto a ingraziarsi l’ordine considerato ‘invincibile’, e anche per questo impegnato a neutralizzare quanto realizzato dal precedente Ministro on. Castelli, poteva far finta di non scorgere la realtà che scivolava sempre più verso una deriva incontrollabile, e dimostrarsi così un marziano scandalizzato.

    C’è una frase però dell’ex Ministro che merita un’approfondimento, ed è quella con la quale Mastella ha affermto: “A Di Pietro pare che tutto sia concesso. Sembra che molti ne abbiano paura”. E’ una frase che rispecchia fedelmente il pensiero che hanno molti, anche all’interno dello stesso Partito di Veltroni, che continuano a non spiegarsi, prima l’alleanza con Di Pietro a scapito di comunisti, socialisti e verdi, e poi il continuo inseguire le sue iniziative populiste; l’appiattimento sul suo credo giustizialista; e l’accettazione dei suoi candidati imposti a suon di provocatorie affermazioni pubbliche. Non si dimentichi che in Abruzzo il candidato a Governatore era un uomo di Di Pietro che il PD ha dovuto, obtorto collo, ingoiare col risultato super deludente registrato a spoglio concluso.

    Ma, se veramente Uòlter e il più ristretto gruppo dirigente dei PD, hanno paura del nostrano mini Robespierre, c’è qualcosa che non è ancora emerso e che è necessario far emergere. Forse, per questo, bisognerebbe tornare indietro con la memoria e capire la vicenda della valigetta, piena di soldi di Gardini, seguita da Di Pietro fin sul portone di Botteghe Oscure e quindi letteralmente scomparsa: perché oltre quel portone non si è trovato chi NON POTEVA NON SAPERE. Ma anche in questo caso la verità sarebbe solo parziale, perché se fino ad ieri poteva avere un significato la difesa della propria impunità oltre quella della propria diversità morale, oggi, dopo che Donegaglia (ex grosso dirigente delle Coop rosse) ha deciso di aprire il rubinetto dei propri racconti svelando i meccanismi della corruzione rossa, non lo si capisce più.

    O forse tutto va ricondotto al fatto che Violante non è più visibilmente accreditato come referente unico del fronte giudiziario, ed al suo posto si è insediato il nostro piccolissimo nuovo Torquemada che però pensa solo a rafforzare il proprio ruolo nel Paese disinteressandosi d’altro. Ma anche se non lo facesse, l’esperienza dimostra, ch’è difficile tenere sotto controllo un ordine diventato ormai oggettivamente incontrollabile.

    I prossimi giorni forse sveleranno tanti misteri, per adesso bisogna accontentarsi del fatto che il dibattito sulla giustizia non è più recintato nelle riserve indiane ma si è librato in ogni direzione. E questo fa ben sperare sullo sgretolamento del fronte della conservazione nella difesa di ruoli e privilegi di casta.

    Intanto dobbiamo un grazie di cuore al dipietrino, delfino o trota che sia, perché ha contribuito, e non poco, a questo risultato. Quelle telefonate fatte al dott. Mautone hanno aperto, al grande pubblico, uno spiraglio illuminante sulla differenza tra predicare e razzolare, e sulla differenza tra democrazia praticata e predicata. In quella praticata il controllo spetta al popolo, nel secondo caso spetta solo a chi ha la furbizia di costruirsi strutture con proconsoli parentali, o partiti con speciali statuti.

    Ma la storia del giustiziere della notte, Antonio Di Pietro, è intessuta di altre vicende ed altri misteri. No, non parliamo né della Mercedes ricevuta, né del prestito di 100 milioni a tasso zero, né dell’appartamento avuto in affitto dalla Cariplo a Milano e ceduto al proprio figliolo, né degli immobili comprati dalla An.to.cri. (Anna, Totò, Cristiano, il trittico Di Pietro) e affittati all’IDV in varie zone d’Italia, ma parliamo del più importante dei misteri. Quello delle sue dimissioni dalla Magistratura, i cui motivi rimangono ancora ignoti, e chissà se in essi non ci sia la chiave per leggere la sudditanza di Veltroni e del PD all’egemonia dipietresca.

    Nei giorni scorsi, il picconatore per eccellenza, l’emerito Presidente della Repubblica Francesco Cossiga , solitamente ben informato (forse per i suoi trascorsi gomito a gomito con i servizi segreti di questo Paese), lo spronava a confessare il perché di quell’abbandono, ricordandogli che lui (Cossiga) ne era a conoscenza, ma che, oggi, preferiva evitare di renderlo pubblico. E’ augurabile che non ci faccia aspettare molto.

    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria 30.12.2008

    SGOMBRARE IL CAMPO PER MANIFESTA INCAPACITA’

    Lo avevamo già scritto, facendo i facili profeti, che alla fine Veltroni, D’Alema e & avrebbero fatto come gli struzzi. Imbrogliano se stessi, si nascondono la verità, quella nuda e cruda della Caporetto abruzzese (anteprima di una Caporetto generale), e, come se si stesse in una normale situazione, anziché porre mano ai problemi di linea politica e correzione profonda del loro modo d’essere, decidono di mantenere lo status quo con quell’asfissiante alleanza con Di Pietro, e, con l’occhio al controllo del partito, pensano solo a come affrontare il redde rationem che comunque è stato rinviato al dopo elezioni europee.

    Siamo veramente, come si vede, all’incapacità di percepire la gravità della situazione in cui si trovano. In pratica, si è alla confusione più totale ed al possibile sfascio di quel partito che fu il PCI, il PDS, i DS e, con la Margherita, l’attuale PD, ‘amalgama mal riuscito’ (versione D’Alema), o ‘amalgama che c’è già stato alle elezioni politiche e prima ancora alle primarie’ (controreplica Veltroni).

    Non c’è dubbio che, nella scelta di non toccare nulla delle proprie alleanze, ha pesato l’esplosione della questione morale che sta facendo assaporare, anche ai ‘moralmente diversi’, quanto è terribilmente salato il mare. Come in una gara tra le Procure, infatti, si susseguono, senza soluzione di continuità, le inchieste, gli arresti, le iscrizioni nei registri degli indagati e i rinvii a giudizio, che stanno sconvolgendo il cosiddetto popolo di sinistra che, per la prima volta, forse, comincia ad aprire gli occhi sul pianeta magistrati e, a denti stretti, comincia a considerare urgente la riforma del settore. Riforma che, per anni, è stata vista come il tentativo di mettere sotto controllo l’ordine giudiziario, e non come una necessità per rendere civile e moderno un Paese sotto scacco e martoriato da abusi di ogni genere per l’autoesaltazione e la forte esposizione mediatica dei nuovi protagonisti, entrati nell’agone a gamba tesissima, quali sono stati i magistrati politicizzati.

    La preoccupazione del ristretto gruppo dirigente del PD è comunque e sempre Antonio Di Pietro e la sua capacità di sfruttare ogni loro passo falso sul terreno giustizialista. Uòlter e ‘baffino’ sanno che le iniziative del PdL non puntano a fare dell’attuale ‘tangentopoli rossa’ un vessillo da usare senza parsimonia. Forse finalmente riescono a capire che Silvio Berlusconi e i suoi alleati non usano, contro i loro avversari, i metodi della canea giustizialista come sanno fare loro e i ‘campioni del rispetto, della civiltà e del confronto’ dell’IDV e del suo leader. Certamente è stato difficile per loro, cultori dell’aggressione sistematica, capire una verità lapalissiana: solo chi non ha argomenti si rifugia nel ghetto giustizialista, mentre il PdL ne ha a iosa.

    Per esempio a Napoli e in Campania, a che servirebbe girare ferocemente il coltello nella piaga, facendo scadere l’iniziativa politica e mettendo sterco nel ventilatore? A chi gioverebbe seminare discredito sulle istituzioni? La giustizia faccia il suo corso e velocemente, ma a Napoli e in Campania, usando solo il lessico del signor Gambale (il Torquemada partenopeo famoso per gli attacchi contro Gava, Scotti, De Lorenzo e Di Donato chiamati la ‘banda dei quattro’), bisogna liquidare al più presto ‘il duo Bassolino-Iervolino’ per assoluta manifesta incapacità politica.

    Le immagini di una regione sommersa dalla spazzatura, senza citare altro, sono stati il biglietto da visita di un gruppo dirigente modesto e senza capacità di volare alto. Mostrare le mani, come ha fatto la Iervolino, e dire che sono pulite serve a ben poco. Perché per guidare una città come Napoli, ex Capitale del Regno delle Due Sicilie, servono certo mani pulite, ma anche mani operose e occhi attenti e vigili. Essendo mancate queste due condizioni, sarebbe più corretto e politicamente più salutare chiudere finalmente un’esperienza fallimentare.

    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria 22.12.2008

    VELTRONI, BASTA CON UN CONNUBIO INDECENTE

    Si potrà girare e rigirare attorno al problema quanto si vuole, si potranno dare mille interpretazioni alla ultima sconfitta elettorale, si potrà dire da parte di Veltroni che alla fin fine il bicchiere si presenta mezzo pieno, mentre D’Alema gli dirà sicuramente ch’esso è mezzo vuoto, se non addirittura che sia totalmente vuoto, ma alla fine faranno come gli struzzi: nasconderanno la verità nuda e cruda della Caporetto rappresentata dal risultato elettorale dell’Abruzzo.

    Non sono abituati a dire come stanno veramente le cose, ad assumersi pienamente la responsabilità di ciò che va male, ad ammettere d’avere sbagliato tutto da dieci mesi a questa parte, per cui continueranno a mentire a se stessi, e saranno vittime della loro stessa presunzione. Non che una strada diversa li potrà riportare in auge, ma almeno li salverà dal precipizio, ed eviterà all’Italia la crescita di logiche populiste e sudamericane degnamente rappresentate da quel simpatico ‘superdemocratico’ qual è il signor Antonio Di Pietro.

    Affrontare la realtà significa prendere il toro per le corna, direttamente e senza alcun infingimento, stoppando la ripida scivolata su quel piano inclinato, cosparso di grasso, dove sono riusciti a collocarsi i signori della cosiddetta sinistra obamiana che vivono di nominalismi, simboli e frasi inglesi che tanto fanno chic nelle terrazze romane. Prendere il toro dal suo simbolo può appariscente significa però riconoscere il gravissimo errore commesso nell’aver allevato e messo in circolo un nemico della democrazia, un giustizialista dichiarato, un populista senza alcun respiro politico, quando contemporaneamente si decretava la fine di sinistre antagoniste, sinistre critiche, socialisti servizievoli e verdi di ogni gradazione.

    Non che l’assenza di detti rappresentanti (Diliberto, Boselli, Pecoraro Scanio, Giordano, Mussi, ecc.) ci abbia sconvolto e ci abbia costretto a mettere il lutto, ma onestamente li avremmo preferiti al trattorista di Montenero di Bisaccia che non è un avversario politico, ma un arringa popolo proteso solo ad incrementare la propria dote elettorale, portandola oltre il 4%, per non dipendere da decisioni altrui. Infatti se l’IDV ha inseguito l’alleanza con Veltroni lo ha fatto per rendersi immune dalla filosofia del voto utile, operazione che non gli serve più volendo giocare direttamente e da solo per evitare, così, si vedersi sbattere, nel prossimo futuro, la porta dell’alleanza in faccia. Sa che per lui è finita la stagione degli incarichi di Governo, ed allora punta a mantenersi in vita e con essa a mantenersi i cospicui rimborsi elettorali.

    Rozzo quanto si vuole, ma abbastanza lucido nel suo percorso e nelle sue scelte. Di Pietro sa che la propria crescita non può avvenire a danno dei moderati raggruppati sotto i vessilli del PdL guidato dal nemico Silvio Berlusconi, ma solo a scapito dei propri compagni di merende, ed allora non si fa scrupoli dando addosso al PD ma se necessario anche alla Croce rossa. Girotondi, grilli, tensioni sociali, scuola, scioperi epifanei lo vedono sempre in prima linea e sempre col megafono in mano. A Uòlter un consiglio: non continuare a sottovalutarlo. Tu sarai più fine certamente, ma ti è mancata completamente la lucidità. Hai imbarcato un talebano, lo hai coccolato, fatto crescere, ed ora ti si rivolta contro. Per te non c’è futuro se non hai il coraggio di staccarti totalmente da tale personaggio.

    A noi che importa? Di te veramente nulla, e nulla di ‘baffino’ il tuo gemello. A noi interessa l’Italia e le politiche da assumere in questo grave momento di recessione internazionale. Convergenze sulle scelte di fondo sono più necessarie dei muri contro muri. Per questo, e solo per il nostro Paese, ci permettiamo di consigliarti la rottura di un connubio indecente.

    Giovanni ALVARO
    Reggio Calabria 16.12.2008